(26/06/2007) La notizia della morte di sei giovanissimi caschi blu – tre spagnoli e tre colombiani – in un attentato nel sud del Libano è certamente tragica, ma non giunge inaspettata a chi ha seguito con attenzione ed obiettività gli avvenimenti di quella regione negli ultimi dodici mesi: vale a dire da quando un commando di terroristi hezbollah, penetrato in territorio israeliano, uccise alcuni soldati di Tsahal e ne rapì altri due, costringendo lo Stato ebraico a lanciare un ultimatum all’imbelle governo di Fuhad Siniora, ostaggio della Siria, e quindi ad attaccare le basi dei fanatici assassini nel territorio libanese a sud del fiume Litani.
L’operazione di bonifica del Libano dalle milizie terroriste incontrò subito difficoltà maggiori del previsto, sia per la tattica usata dagli Hezbollah di nascondersi vigliaccamente in abitazioni civili, servendosi di innocenti come scudi umani e poi, dopo un bombardamento israeliano, accusare gli Ebrei di “genocidio” davanti alla compiacente platea dei mass media, sia a causa del loro sofisticato armamento, fatto di razzi anticarro e antinave di fabbricazione cinese e russa e soprattutto di missili a lungo raggio, arrivati dall’Iran via Damasco e lanciati a migliaia sulle città israeliane. Ma a impedire ai ragazzi con la stella di Davide di completare il loro meritorio lavoro, di vendicare la morte dei loro compagni e concittadini, e di distruggere la forza oscura che metteva a ferro e fuoco il loro Paese è giunto “tempestivamente” l’arrogante D’Alema, il quale prima si è rammaricato che Israele stesse vincendo, poi si è affrettato a convocare una conferenza di “pace” a Roma che ha formulato la solita condanna contro lo Stato ebraico, infine è riuscito a convincere un gruppo di paesi a mettere insieme un contingente sotto l’egida Onu (quell’Onu che non ha voluto né potuto impedire il genocidio del Ruanda, la “pulizia etnica” in Bosnia e Kossovo, quell’Onu che da anni non vuol fermare i massacri in Darfur e le persecuzioni dei cristiani in tutti i paesi dominati dall’Islam). Una missione, quella denominata Unifil, regolata da un mandato che definire ambiguo è poco, dal momento che non era previsto l’uso della forza per disarmare le milizie hezbollah, né per bloccare i rifornimenti di armi pesanti dalla Siria; una missione voluta al solo scopo di legare le mani a Israele, come è divenuto palese agli occhi del mondo quando il ministro-sinistro degli Esteri italiano si è recato a Beirut a omaggiare gli esponenti della fazione filosiriana e si è fatto fotografare a braccetto con il capo dei terroristi assassini.
Date queste premesse, era scontato che gli Hezbollah
avrebbero approfittato della copertura assicurata dall’Onu per riprendere e
consolidare il controllo della zona sud del Libano, per ricostruire le loro
basi e dotarsi di missili ancora più letali, e di prepararsi così a sferrare
nuovi e più sanguinosi attacchi: è di questi giorni la notizia che
E di fronte a questa terribile eventualità, cosa fa il sinistro D’Alema? Ripete a squarciagola che «la soluzione alla guerra civile libanese è la nascita di un governo di coalizione» (insomma dare una fetta di potere legale a Hezbollah, come se questi fossero disponibili a “integrarsi” nelle istituzioni anziché, come hanno fatto durante l’occupazione siriana, strumentalizzarle per i loro fini); stringe un patto segreto con Assad – come riferisce il quotidiano “Haaretz” – chiedendo al tiranno “protezione” per i soldati italiani dell’Unifil in cambio di un “interessamento” per far ottenere alla Siria cospicui aiuti internazionali; e infine, ciliegina sulla torta, ordina al proprio mandatario nella famigerata commissione Onu per i diritti umani di porre Israele sotto “sorveglianza speciale”. Quei sei ragazzi morti in Libano, generose anime d’eroi cadute per una missione sbagliata fin dall’inizio, dovrebbero pesare come macigni sulla sua coscienza. Se l’avesse.
ANNUIT COEPTIS
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