Il difficile rapporto con l'Islam
Ernesto Galli della Loggia - Corriere
7/10/2015
Due grandi fenomeni storici stanno
svolgendosi sotto i nostri occhi nel Medio Oriente, alle nostre porte di
casa (di noi europei e italiani in particolare). Da un lato la
disintegrazione di fatto dell’intero sistema di Stati nato dopo la Prima
guerra mondiale sulle rovine dell’Impero ottomano, dunque la
ridefinizione di interessi, alleanze, rivalità, con la conseguente
caduta di gran parte delle élite e dei movimenti alla loro guida da
decenni, spesso legate in un modo o nell’altro ai Paesi europei (anche
l’Unione Sovietica da questo punto di vista lo era). Dall’altro lato
assistiamo all’affermarsi di una versione ultraradicale e quanto mai
aggressiva della «umma» musulmana, della «comunità dei fedeli» che
pretende di non conoscere confini e regole che non siano quelli della
religione.
Da entrambi questi fenomeni siamo presi come tra due fuochi: in una
condizione d’incertezza non solo politica, resa più inquietante dal
fatto che ormai milioni di immigrati musulmani sono tra noi, popolano
l’Italia e l’Europa. Fuori e dentro i nostri confini, insomma, ci
troviamo di fronte al gigantesco problema di un nuovo rapporto con
l’Islam. Come risolvere i suoi mille aspetti non lo sappiamo.
Preliminarmente però a ogni possibile ricerca di soluzione dovremmo
almeno fissare dei punti-chiave, una sorta di paletti concettuali, entro
i quali non solo la discussione pubblica in questo campo, ma anche gli
atteggiamenti concreti che ne derivano dovrebbero cercare di restare.
Mi sembrano fondamentali almeno i cinque seguenti.
1) Va innanzitutto limitato al massimo l’uso del
termine polemico «islamofobia». Criticare la religione islamica, i suoi
testi, le sue prescrizioni, mostrarne le contraddizioni e i risultati
negativi nei suoi insediamenti storici (per esempio verso le donne),
deve essere sempre lecito. Dovrebbe essere stigmatizzato come «islamofobia»
solo l’atteggiamento aggressivo, discriminatorio o violento, verso le
persone di religione musulmana a causa della loro fede.
2) Va poi recisamente confutata l’affermazione di
uso corrente secondo la quale «tutte le religioni monoteiste sono
fondamentalmente eguali». Non è vero. L’eguaglianza davanti a Dio di
tutti gli essere umani indipendentemente dal proprio sesso, la
titolarità da parte di ognuno di loro di certi diritti «naturali», il
rapporto riguardo alla propria specifica tradizione dottrinale e
all’interpretazione dei testi sacri, l’atteggiamento nei confronti della
violenza e della guerra, la presenza o no di un clero organizzato
stabilmente in un organismo gerarchico, sono solo alcuni dei principali
ambiti di radicali differenze tra le varie religioni monoteiste. Che a
loro volta producono, com’è ovvio, una fortissima diversità tra di esse
nella costruzione della soggettività, del legame sociale, nonché del
modo di stare con gli altri e nel mondo.
3) Ancora: i reciproci torti storici (ammesso che
una simile espressione abbia un senso) tra mondo islamico e mondo
cristiano come minimo si equivalgono. L’Islam attuale, infatti, si
stende su un territorio in grandissima parte originariamente non suo né
arabo, conquistato grazie a un paio di secoli di guerre che tra l’altro
portarono, oltre che alla lunga occupazione della Sicilia e di due terzi
della penisola iberica, all’occupazione militare da parte musulmana dei
cosiddetti Luoghi Santi (le Crociate furono un fallimentare tentativo di
risposta precisamente a tale occupazione), nonché alla virtuale
cancellazione della presenza cristiana fino allora maggioritaria
specialmente nel Nord Africa. Anche la cancellazione dall’Anatolia e
dintorni dell’impero cristiano di Bisanzio, da parte degli ottomani, non
avvenne proprio con mezzi pacifici.
D’altro canto la conquista coloniale di parti dell’Islam compiuta da
alcune potenze europee a partire dal ‘700 e durata fino alla metà del
‘900 appare più o meno «equivalente» - se proprio dobbiamo ragionare in
questi termini alquanto ridicoli - all’occupazione per secoli
dell’Europa balcanica da parte dell’Islam. In conclusione non sembra
proprio, se i fatti contano qualcosa, che storicamente gli occidentali e
l’Europa abbiano qualcosa da farsi perdonare dal mondo islamico.
4) Per convalidare l’effettiva «moderazione»
dell’Islam che si dice tale non dovrebbe bastare la sua astensione dalla
violenza. Dovrebbe anche essere considerata necessaria l’aperta condanna
da parte sua dei propri correligionari quando questi, invece, ne fanno
uso.
5) Infine, il dialogo interreligioso, se non vuole
essere inutile apparenza, se per l’appunto vuole essere un dialogo e non
un monologo, non può fare a meno di prevedere che ad ogni sua
manifestazione pubblica «da noi» ne corrisponda una analoga pubblica
(sottolineo pubblica) «da loro». Solo una simile pratica può contribuire
a instaurare un costume di autentica, reciproca tolleranza. Continuerà
altrimenti a sussistere sempre la situazione attuale che nel complesso
vede il tasso di tolleranza delle società islamiche nei confronti dei
cristiani e della loro cultura enormemente inferiore a quello delle
società cristiane verso i musulmani.
Mentre i punti chiave appena indicati, se non mi sbaglio, sono
largamente condivisi dall’opinione pubblica, temo che invece essi siano
disattesi, e anzi guardati con sospetto, dalle élite politiche e
intellettuali che guidano le nostre società: affezionate ancora oggi,
specie nei rapporti internazionali, a un’ideologia buonista, a una
voglia di illudersi e di chiudere gli occhi di fronte alla realtà, che
finora non hanno mai portato a nulla di buono. E destinate, è certo, a
portarne ancora meno in futuro. |