La ragnatela di Gheddafi nel
mondo
di Riccardo Barlaam -
Sole24Ore 14/3/2011
La Libia è una enorme torta
ricoperta di sabbia. Con il
ripieno di petrolio. E'
al nono posto, tra i paesi
produttori, per le riserve
accertate e non ancora sfruttate
di greggio e gas naturale. Un
mare di ricchezza che è lì in
attesa solo di essere estratta.
Basta scavare e si trova oro
nero. E' sufficiente questo per
capire perché in questi ultimi
anni, in tempi di crisi
economica globale, i "grandi"
della terra sono tornati a
Tripoli bel suol d'amore
richiamati dai petrodollari e
dagli appalti facili.
Una rete da 120 miliardi di
dollari
E Muhammar Gheddafi è tornato ad
essere un amico dell'Occidente,
un amico bizzarro, strambo
quanto vi pare, il "re dei re
africani", ma da tenere buono,
perché ha le tasche piene. E'
incredibile come si è ramificato
in questi anni il suo impero in
occidente.
Gli affari sono affari. E, come
già argutamente sentenziavano
gli antichi romani, pecunia non
olet, i soldi non puzzano. A
tracciare la strada della
strategia di investimento dei
libici dopo la fine dell'embargo
nel 2008 è stato Farhat Bengdara,
governatore della Banca centrale
libica qualche tempo fa in
un'intervista alla Associated
Press. La Libyan investment
authority (Lia), fondo sovrano
nato dalle ceneri della vecchia
Banca Lafico appena fondato tre
anni fa aveva una dote da
spendere di 65 miliardi di
dollari (qualcuno parla di 100
miliardi). «Puntiamo ad
acquisire - aveva detto allora
il banchiere centrale - non una
grande quota in una singola
società, ma tante piccole quote
azionarie in differenti settori
attraverso i mercati finanziari.
Nel complesso ci compreremo il
3% delle azioni quotate sui
mercati finanziari mondiali». Il
fondo sovrano libico guardava ai
mercati europei, americani,
asiatici e a quelli dei paesi
emergenti. A settori immuni
dalla crisi come farmaceutica,
utility, telecomunicazioni,
società petrolifere e
agroalimentari.
Investimenti per fare soldi e
per condizionare, quando ce n'è
bisogno, le scelte politiche. Un
esempio? La Svizzera. Il 15
luglio 2008 – ricorderete - in
un albergo di Ginevra furono
arrestati Hannibal Gheddafi, il
figlio del colonnello, e la
moglie incinta, dopo la denuncia
per maltrattamenti di due
domestici. La reazione dei
suscettibilissimi libici ebbe il
sapore di una ritorsione: furono
sospesi i rapporti diplomatici
ed economici. Tripoli ordinò la
chiusura degli uffici di
multinazionali svizzere, come
Nestlé e Abb. Arrestò i
lavoratori svizzeri presenti nel
paese "per infrazione della
legge sull'immigrazione". E -
arma più potente - ritirò dai
sicuri forzieri delle banche
elvetiche depositi per 7
miliardi di euro (chissà dove
sono ora).
Un fiume di dollari per i paesi
amici
I miliardi di Gheddafi in questi
anni sono affluiti in Italia, ma
anche in Spagna e Gran Bretagna,
negli Stati Uniti, e in una
trentina di paesi africani.
«Paesi amici», diceva lui. La
Libia d'altronde da qualche anno
che non era più nella lista nera
degli Stati Uniti. La
riabilitazione si è conclusa
dopo che, nell'ottobre 2008 il
governo di Gheddafi ha versato
1,5 miliardi di dollari per
risarcire le famiglie delle
vittime del terrorismo libico:
le sanzioni e l'embargo
internazionali erano stati
decisi dall'Unione europea nel
1986 e dall'Onu nel 1992 dopo
gli attentati all'aereo Pan-Am,
precipitato su Lockerbie, in
Scozia, il 21 dicembre 1988 (270
morti) e alla discoteca La Belle
di Berlino, il 5 aprile 1986 (3
morti e 260 feriti).
Responsabili dei due attentati
furono due agenti di Tripoli.
Da malato terminale alla
Lamborghini
Per questo c'è stata una gara
per accostarsi al banchetto
libico e riuscire a mangiare una
fetta di torta, in termini di
partecipazioni azionarie in
aziende occidentali e o di
appalti. Ci sono tutti dentro.
Italia, Francia e Spagna in
prima fila. Ma anche gli inglesi
che pur di partecipare sono
arrivati al punto di autorizzare
la liberazione di Abdel
al-Megrahi, agente libico
condannato come esecutore
materiale della strage di
Lockerbie, perché si riteneva
fosse malato terminale di
cancro.
L'ex ministro della giustizia
della Libia, ora passato nelle
file dei ribelli, ha rivelato
che fu proprio il colonnello
Gheddafi a dare l'ordine di far
saltare l'aereo americano.
Al-Megrahi sembra che goda di
ottima salute. Prima della
rivolta, le cronache
raccontavano che non era raro
vederlo sfrecciare a bordo di
una Lamborghini lungo i viali di
Tripoli.
Sono tornati gli americani che
aspettavano solo la fine
dell'embargo, per gli appalti
del petrolio. Nella capitale
svetta già un nuovo modernissimo
Marriott Hotel a 5 stelle: ha
ospitato in gennaio il vertice
tra Europa ed Africa. Sono
arrivati i cinesi, i turchi, gli
iraniani, gli indiani. Gli
affari del colonnello e le
quotazioni di greggio risalite
prepotentemente con la rivolta
libica ora però condizionano le
prospettive economiche della già
debole ripresa. Tutti hanno
paura del prezzo del petrolio.
Caccia al tesoro
Dopo i massacri dei civili, la
comunità internazionale ha
bloccato i beni e le
partecipazioni della Libia
all'estero. La Gheddafi
corporation in Occidente si
stima arrivi a 120 miliardi di
dollari, un fiume dollari. Hanno
cominciano gli americani con 30
miliardi bloccati. Le attività
del Fondo sovrano Lia sono state
congelate assieme ai beni di
Gheddafi in forza di un ordine
esecutivo emesso da Barack Obama
il 28 febbraio, dopo la
risoluzione numero 1970 dell'Onu
approvata il giorno prima.
In Europa i beni che si possono
far risalire alla famiglia
Gheddafi sono congelati dal 3
marzo: si parla di altri 40
miliardi di dollari. In Austria,
la Banca nazionale (OeNB) ha
congelato 1,2 miliardi di
depositi libici. Londra ha
bloccato le partecipazioni
libiche nel capitale della casa
editrice Pearson (il 3,27%), che
pubbblica il Financial Times,
quotidiano della city. In Gran
Bretagna il colonnello ha beni
per 32,2 miliardi di dollari tra
conti bancari, i fondi Fm
capital partners e Dalia
advisory, centri commerciali
(Portman House a Oxford Streeet),
immobili e una casa da
milionario ad Hampstead.
Occidente e Africa
In Africa la Libia è presente
attraverso la finanziaria
Laafico (Lybian arab african
investment company) in 24 paesi.
Tra questi in Gabon (concessione
per 400mila ettari di foresta),
Congo Brazaville (fabbrica di
mobili e di legname), Burkina
Faso, Mali, Niger, Guinea
(fabbrica di succhi di frutta),
Chad, Uganda, (Hotel Lake
Victoria a Entebbe) Benin,
Liberia (industria della gomma)
Etiopia, Nigeria, Madagascar,
Repubblica centrafricana,
Sudafrica, (alberghi a 5 stelle
a Johannesburg), Eritrea,
Zimbabwe, Zambia (52 ville a
Lusaka) Ruanda, Gambia, Tongo,
Comore, Repubblica Democratica
del Congo (società di diamanti
Oryx).
Le aziende turche più esposte
La situazione è di grande
incertezza per molte aziende
occidentali che sono esposte
pesantemente con il regime di
Tripoli. Quelle americane e
inglesi sembra siano garantite
da un programma che fa capo alla
Banca mondiale. Quelle messe
peggio sono le aziende turche
che non hanno alcune copertura
assicurativa.
Le italiane senza paracadute
Anche molte aziende italiane che
operano nel Nord Africa sono
senza paracadute. Secondo i
registri locali dell'Ice, le
aziende italiane presenti in
Libia, Tunisia ed Egitto sono
840: oltre 700 a Tunisi, un
centinaio a Tripoli e una
trentina al Cairo, tutte di
medie-grandi dimensioni. La
copertura assicurativa è molto
bassa: l'export garantito dalla
Sace in Tunisia, Egitto e Libia
(fino a settembre 2010) è di
appena 255 milioni su un valore
totale di merci esportate per 9
miliardi di euro. Quest'anno le
imprese italiane potrebbero
pagare per le rivolte
nordafricane in termini di
mancate esportazioni verso
Egitto, Libia, Tunisia e Algeria
un conto da 8 miliardi di euro:
si rischia di perdere tra il 50
e il 70% del totale dell'export.