Con le Dat non si
impone nulla. Ma certe
scelte non sono delegabili
UNA RETTA INTERPRETAZIONE DEL DISEGNO DI LEGGE SULLA FINE DELLA VITA ![]()
Di
ROCCO BUTTIGLIONE
(*) - Avvenire 26/2/2011
Per capire la legge che
stiamo facendo sulle
Dichiarazioni Anticipate di
trattamento (Dat) dobbiamo
domandarci: «Quale è il
telos (il fine), quale
è l’interesse che la legge
intende proteggere?». È
l’interesse ed il diritto
della persona a vivere fino
al termine naturale della
propria esistenza. Questo
implica il rifiuto della
eutanasia ed il rifiuto
dell’accanimento
terapeutico. L’eutanasia
pone alla vita un termine
artificiale, fa morire una
persona prima che la vita
sia giunta al suo termine
naturale. L’accanimento
terapeutico prolunga la vita
oltre il suo termine
naturale. Vediamo adesso di
fornire alcune
chiarificazioni su alcuni
artifici retorici che spesso
ricorrono nella discussione
intorno a questa legge.
Alcuni dicono che la
legge non serve a nulla. Non
è vero. A che cosa serve la
legge?
Immaginiamo che un paziente sia in cura intensiva e che siano esaurite le probabilità di una guarigione. Il paziente ha lasciato un documento in cui dice di non volere essere mantenuto in vita artificialmente. Il medico sospende le cure straordinarie. A questo punto in genere il paziente muore. Il medico avrebbe comunque dovuto sospendere le cure, prima o poi. Il fatto di avere la dichiarazione del paziente lo aiuta però a prendere la decisione (insieme con il fiduciario indicato nelle dichiarazioni anticipate) e lo tutela anche contro possibili azioni legali dei familiari. La decisione verrà presa (probabilmente) prima e con minori difficoltà.
Definire in concreto
dove finisce il dovere di
cura e dove inizia
l’accanimento terapeutico
non è facile. La
dichiarazione anticipata di
trattamento aiuta a definire
questo confine. Nella
stragrande maggioranza dei
casi le cose vanno in questo
modo. Quasi tutti noi
moriremo così.
Alcuni dicono che la legge
impone l’alimentazione
forzata a chi non la vuole.
Non è vero. Se uno non vuole
la alimentazione artificiale
e la rifiuta nessuno può
imporgliela.
La legge dice un’altra
cosa: il rifiuto di terapie
salvavita o di ordinarie
misure di assistenza e cura
che preservano la vita è un
atto personalissimo
assolutamente non
delegabile. La persona deve
esprimerlo direttamente. Non
basta scriverlo in una
dichiarazione anticipata di
trattamento.
La ragione è che ogni
atto di volontà si colloca
in un contesto. Il contesto
della imminente minaccia di
vita è un contesto
assolutamente straordinario.
È elevata la probabilità che
in quel contesto la persona
esprimerebbe una indicazione
diversa da quella che ha
lasciato scritta in un
documento.
Ne abbiamo la riprova
nel caso, ben noto, di chi
tenta il suicidio. La sua
volontà di morire è, in
questo caso, evidente e
comprovata da un gesto ben
più eloquente di una
dichiarazione scritta. Noi
tuttavia lo assistiamo e, se
questo è possibile, gli
salviamo la vita. Nella
maggioranza dei casi
l’aspirante suicida è
contento di essere stato
salvato e non ripete il
tentativo. Per questo è
ingiusto parlare di
"alimentazione forzata".
Semplicemente vale qui una
presunzione a favore della
vita in assenza di una
indicazione contraria
attuale.
La semplice verità è che
noi non sappiamo cosa pensi
o voglia chi è in stato di
incoscienza. In altre
parole: se uno si suicida
deve farlo lui
personalmente, non può
delegare l’incombenza ad
altri e meno che mai al
servizio sanitario
nazionale.
Ma, si dice, in questo modo
noi neghiamo il principio
costituzionalmente garantito
della autodeterminazione del
paziente. E si cita, a
questo proposito, l’art. 32
della Costituzione, secondo
comma. Leggiamolo allora
questo articolo 32, ma
leggiamolo per intero e non
in una versione abbreviata
di comodo, come ha fatto
anche di recente un
autorevole commentatore del
Corriere della Sera .
Ecco il testo abbreviato e
falsificato: «Nessuno può
essere obbligato ad un
determinato trattamento
sanitario». Ecco il testo
autentico: «Nessuno può
essere obbligato ad un
trattamento sanitario se non
per disposizione di legge».
Invece di un divieto
assoluto abbiamo qui una
semplice riserva di legge.
La riserva è poi rafforzata
da una clausola di chiusura:
«La legge non può in nessun
caso violare i limiti
imposti dal rispetto della
persona umana». In altre
parole, ove venisse
istituito un trattamento
sanitario obbligatorio esso
dovrebbe essere rivolto
sempre (anche) al bene del
paziente e dovrebbe
trattarlo sempre come un
fine in se e non
semplicemente come un mezzo.
E risibile il tentativo
di far derivare dal rispetto
della persona umana il
diritto alla eutanasia. Se
alcuni vedono in tale
diritto l’espressione
suprema della libertà e
dignità della persona, altri
vedono in esso la rinuncia
più assoluta a tale libertà
e dignità. È giusto che se
ne discuta nel Parlamento e
nel Paese, ma è bene che
nessuno pretenda di chiudere
le orecchie alle ragioni
dell’altro sequestrando a
proprio favore la
Costituzione. La
Costituzione è di tutti e
non decide questo problema.
Sarà bene ricordare,
inoltre, che la Costituzione
è il risultato di un patto
fra cattolici, liberali
laici e comunisti. Se una
interpretazione capziosa ed
estensiva altera i termini
di questo patto e dichiara
incostituzionali valori
fondamentali dei cattolici,
allora è la ragione di vita
della Costituzione che viene
meno ed ha ragione chi dice
che bisogno negoziare un
nuovo patto costituzionale,
ma non nelle aule dei
tribunali bensì nel
Parlamento e nel Paese. I
cattolici possono accettare
di essere sconfitti in una
battaglia politica libera e
democratica, ma non possono
accettare di essere
considerati come cittadini
di seconda categoria, le cui
convinzioni sono a priori
contro la Costituzione.
Nel caso specifico che ci
riguarda è però sbagliato
scomodare l’art. 32 della
Costituzione. Ciò di cui
stiamo parlando sono
semplicemente le condizioni
di validità di un atto di
volontà con cui si rinuncia
a misure di sostegno vitale.
Si dice semplicemente che
questo atto non è
delegabile.
Nel bilanciamento fra il
principio costituzionale
della difesa della vita e
quello della
autodeterminazione, si
stabilisce un equilibrio per
cui prevale il principio di
autodeterminazione quando la
volontà viene espressa
direttamente, e prevale il
favor vitae quando
manchi questa espressione
diretta.
Resta infine da considerare
un’ultima obiezione: la
legge contraddirebbe gli
indirizzi giurisprudenziali
della Corte di
Cassazione. Su questo punto
basta replicare che le leggi
non le fanno i giudici ma il
Parlamento.
(*) Rocco Buttiglione vicepresidente della Camera e presidente dell’Udc |