La politica non può accettare il relativismo religioso
di mons. Giampaolo
Crepaldi*
ROMA, giovedì, 24 febbraio
2011 (ZENIT.org).- La
politica, non può accettare
il relativismo religioso,
che consiste nel dare
udienza pubblica a tutte le
religioni e a tutte le
prescrizioni di tutte le
religioni. Prescrizioni
religiose che
comportassero amputazioni
corporee, sacrifici umani,
prostituzione sacra,
segregazione obbligata di
persone, diminuzioni della
libertà personale,
integralismo religioso
fanatico, identità
integralista tra legge
religiosa e legge civile,
violazione della dignità
della donna, atti
terroristici, poligamia o
altre cose simili non
dovrebbero essere accettate
dalla politica. Sempre più spesso nelle società occidentali la politica è chiamata a misurarsi con problemi di questo genere. I testimoni di Geova non vogliono le trasfusioni di sangue e piuttosto si lascerebbero morire; i musulmani vogliono poter sposare più di una donna; certe culture africane vogliono attuare mutilazioni genitali sulle donne; alcune comunità vogliono che il volto delle donne sia completamente coperto, secondo molte usanze e leggi le donne non possono testimoniare in tribunale e così via. La politica è sempre più chiamata a decidere in questi ed altri casi simili. Come si comporterà? Tollererà ogni tipo di comportamento giustificato da motivazioni religiose? Adeguerà le legislazioni vigenti alle nuove esigenze? Creerà sistemi legislativi paralleli? Ci sono molti segni di cedimento della politica davanti a questi problemi, che provocano a loro volta controreazioni di intolleranza. La politica, e quindi anche il cattolico in politica, non potrà ammettere pratiche e atteggiamenti lesivi della dignità della persona, dell’integrità del corpo, della pari dignità tra uomo e donna. In questi casi non si tratta di rispetto della libertà di religione, si tratta di difesa della dignità umana e della giustizia. Il diritto alla libertà di religione ha valore nel contesto del dovere di cercare la verità, e quando esso contrasta con la verità dell’uomo non può essere assunto a diritto riconosciuto pubblicamente. Non è da escludersi che la politica possa anche governare i lussi migratori in base alla religione, per favorire, a parità di condizioni di necessità, migranti di una religione piuttosto che di un’altra (ma su questo tornerò nel capitolo sulle migrazioni).
In questo contesto di
problemi, il politico
cattolico deve tenere
presente dentro di sé
un altro importante
aspetto. Cosa dà la sua
religione, il cattolicesimo
appunto, alla ragione
politica? Contribuisce
più o meno di altre
religioni a svilupparla
nella sua autonomia?
Questo è importante,
altrimenti nel cuore stesso
del politico cattolico si
affievolisce l’idea
dell’importanza della sua
fede religiosa, per sé e per
gli altri, e così egli sarà
facilmente disponibile a
rinunciarvi sia sul piano
personale che pubblico. Egli
dovrebbe continuamente
formarsi ed essere formato
alla grandezza della sua
religione proprio per
illuminare la ragione
politica, sicché potrà dire
che la stessa ragione
politica ha bisogno del
cristianesimo. Si vedrà così
come il cristianesimo sia
in grado di illuminare
meglio la ragione
politica e di conferirle
la sua legittima autonomia.
Esso è in grado di
illuminare meglio il
concetto di persona, che in
Occidente è nato grazie al
cristianesimo; è in grado di
spiegare meglio la
relazionalità umana a
partire dal dogma della
Trinità; è in grado di
fondare meglio la
fratellanza umana e così
via. *Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo di Trieste, Presidente della Commissione “Caritas in veritate” del Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa (CCEE) e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa. |