di
Stefano Grazioli - East Side Report 19 maggio 2010
Tanti parlano e scrivono di geopolitica, pochi ne capiscono
davvero qualcosa.
Daniele
Scalea è uno di questi. Giovane, 25 anni e una laurea in Scienze
storiche alla Statale di Milano, Daniele Scalea - che già da
qualche anno é nella redazione di
Eurasia - ha esordito con un opera di grande spessore (un
assaggio sul sito), dimostrando che le sponde del Lago
Maggiore (vive a Cannobio) possono diventare un osservatorio
privilegiato per capire e spiegare le vicende del Mondo che ci
circonda.
A
confermarlo non sono tanto io, quanto chi ha scritto la
prefazione del nuovo libro di Daniele, “La sfida totale –
Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali”
(Fuoco Edizioni), e cioè il generale Fabio Mini, uno che ne
capisce: “Si potrebbe tranquillamente dire che Daniele Scalea ha
scritto un trattato di alta Geopolitica. Ha descritto il mondo
attuale cercando di interpretarlo alla luce delle teorie
classiche della Geopolitica confermandone, e ce n’era bisogno,
la validità metodologica. Ha preso in esame tutti i grandi
attori mondiali e dopo una panoramica appassionata, non c’è
nient’altro da dire”.
Ecco,
non aggiungo altro nemmeno io. Consiglio solo di
correre in libreria o ordinare il libro via internet
direttamente dall’editore. E di leggere con attenzione la
lunga intervista che gentilmente che l’autore ci ha concesso.
Rovesciamo la bottiglia e partiamo dal fondo. Lei conclude il
suo libro scrivendo che la nascita del Nuovo Mondo, o perlomeno
la ristrutturazione geopolitica di quello vecchio, potrebbe
essere oltremodo complicata: in sostanza il passaggio da un
sistema semi-unipolare a uno multipolare rischia di produrre
dolorose frizioni dovute al fatto che la potenza egemone – gli
Stati Uniti – opporrà resistenza alla perdita del proprio
potere. La “sfida totale” ha già vincitori e vinti?
La tendenza storica del post-Guerra Fredda marcia contro gli
USA. Negli anni ’90 la geopolitica mondiale ha vissuto il suo
“momento unipolare”, e tutto sembrava girare per il verso
giusto, dalla prospettiva di Washington. Ma già si covava quanto
sarebbe venuto. L’ultimo decennio ha visto l’emergere a livello
economico, strategico ed infine anche politico di veri e propri
competitori della “unica superpotenza rimasta”: il riferimento è
prima di tutto a Cina e Russia, ma una menzione la meritano pure
India, Brasile, Giappone. Il sogno della “fine della storia” è
svanito. Gli USA hanno tentato, sotto Bush, un ultimo brutale
tentativo di mantenere la propria supremazia incontrastata: il
progetto di “guerra infinita”, che avrebbe dovuto annichilire
come un rullo compressore tutti i possibili nemici e
competitori, ma che si è arenato già sui primi due scogli
incontrati, ossia Afghanistan e Iràq. L’ordine mondiale odierno
è “semi-unipolare”, con Washington ancora potenza egemone, ma
più per la cautela dei suoi rivali che per la propria forza ed
autorità. La crisi finanziaria del 2008 è partita dagli USA ed
ha mandato parzialmente in frantumi quell’ordine economico su
cui si fonda gran parte del potere di Washington. Tutto lascia
supporre che si concretizzerà il ritorno ad un vero e proprio
ordine “multipolare”, e questa è anche la mia previsione.
Però …come spesso accade c’è un “però”. Uno degli errori più
comuni del nostro tempo è quello di percepire le tendenze come
fattori fissi ed immutabili, quando in realtà sono contingenti.
Come sosteneva Hume, l’uomo è portato a credere in ciò che è
abituato a vedere, ossia ad assolutizzare il contingente. Ma le
inversioni di tendenza sono sempre possibili. Gli Stati Uniti
non hanno accettato e difficilmente accetteranno il ruolo di ex
egemone in declino. A meno d’implosioni interne del tipo
pronosticato da Igor Panarin, riusciranno ad opporre resistenza,
ed hanno molto frecce al loro arco se non per bloccare, quanto
meno per rallentare la transizione al mondo multipolare:
ricordiamo, tra i principali, il poderoso strumento militare
(che spesso fa cilecca, ma per capacità di proiezione globale
non ha pari), la “egemonia del dollaro” (Henry Liu), la
centralità nel sistema finanziario, l’influenza culturale. Già
il secolo scorso la supremazia delle talassocrazie anglosassoni
fu sfidata, prima dal Reich tedesco e poi dall’Unione
Sovietica, e sappiamo bene tutti come andò a finire. Meglio non
vendere la pelle dell’orso (o le penne dell’aquila, se vogliamo
esser più precisi nell’allegoria zoologica) prima d’averlo
ucciso. Certo però che questi USA d’inizio XXI secolo paiono
solo la copia sbiadita della superpotenza del ventesimo: molta
della loro grandezza deriva dall’eredità delle generazioni
passate, e quando sono chiamati a difenderla non sembrano
all’altezza del proprio rango senza pari.
E
ora dall’inizio, tuffandoci un po’ nel passato. L’attacco al
cuore della Terra, all’Heartland, che gli Stati Uniti hanno
attuato su quattro direttrici (sovversione politica, espansione
militare, risorse energetiche, supremazia nucleare): può
sintetizzare?
La strategia statunitense, quanto meno dagli ultimi anni della
Seconda Guerra Mondiale in poi (e forse anche da prima), è
fortemente ispirata ai princìpi della geopolitica. L’Heartland
(H. Mackinder) è una delle categorie basilari di questa
disciplina: è la Terra-cuore, il centro del continente
eurasiatico, storicamente impermeabile alla potenza marittima –
quest’ultima incarnata prima dall’Impero britannico e poi dal
“imperialismo informale” statunitense. L’Heartland è
occupato dalla Russia, che rappresenta perciò stesso il
principale ostacolo e minaccia potenziale all’egemonia della
potenza talassocratica, ossia marittima, degli USA. Dalla fine
della Guerra Fredda ad oggi, Washington e Mosca hanno più volte
tentato approcci amichevoli, ma tutti sono finiti male.
All’arrendevolezza di El’cin si rispose con lo smembramento
della Jugoslavia, ed i Russi reagirono portando al Cremlino un
certo Vladimir Putin. Le sue aperture dopo l’11 settembre sono
state ripagate con la penetrazione statunitense in Asia
Centrale, nel “cortile di casa” russo. Anche l’attuale
recentissimo idillio tra Obama e Medvedev durerà poco. Nessuno
vuole sfociare nel determinismo, ma la geografia è un fattore
importante nella vicenda umana, ed in questo caso la geografia
condanna Russia e USA ad essere, almeno nello scenario attuale,
quasi sempre nemici.
Dagli anni ’90 ad oggi gli Statunitensi, sulla scia di
teorizzazioni come quelle di Zbigniew Brzezinski, lungi
dall’allentare la morsa su Mosca hanno cercato di sfruttare il
crollo dell’URSS per neutralizzare definitivamente la minaccia
russa. Le “direttrici d’attacco”, come da lei sottolineato, sono
state quattro:
a) la
sovversione politica: tramite la CIA, enti pubblici o
semi-pubblici come il National Endowment for Democracy o
U.S. Aid, e finte ONG gli USA hanno orchestrato una serie
di colpi di Stato in giro per l’ex area d’influenza moscovita,
allo scopo d’insediare quanti più governi filo-atlantici e
russofobi fosse possibile. I casi più celebri: Serbia, Georgia,
Ucraìna, Kirghizistan. Ci hanno provato persino in Bielorussia e
in Russia (leggi Kaspàrov), ma non è andata bene. I governanti
locali si sono fatti furbi ed hanno iniziato a porre una serie
di restrizioni alle attività d’organizzazioni straniere nei
propri paesi. Gli ultimi eventi in Ucraìna e Kirghizistan fanno
pensare che l’ondata di “rivoluzioni colorate” sia ormai in fase
di risacca;
b) l’espansione
militare: la NATO si potrebbe definire come l’alleanza che
lega l’egemone statunitense ai paesi ad esso subordinati. Non è
qualitativamente diversa dalla Lega Delio-Attica capeggiata da
Atene, o dalle varie alleanze italiche di Roma. Un’alleanza non
certo tra pari. Nata in funzione anti-sovietica, scioltasi
l’URSS non solo non ha chiuso i battenti ma si è allargata verso
est, fino ai confini della Russia. La nuova dottrina militare
russa cita espressamente la NATO tra le minacce per il paese;
c) le
risorse energetiche: una potente leva strategica per la
Russia è costituita dalla sua centralità nel commercio
energetico intra-eurasiatico. Gli USA hanno cercato di sminuirla
facendo dell’Asia Centrale un competitore di Mosca, tramite
gasdotti e oledotti alternativi che scavalcassero il territorio
russo. L’impossibilità di costruire la condotta trans-afghana,
il ridotto impatto del BTC ed il fallimento annunciato del
Nabucco chiariscono che il progetto, almeno per ora, non ha
avuto successo;
d) la
supremazia nucleare: è un punto sovente ignorato dai
commentatori occidentali. Si definisce “supremazia nucleare” la
capacità d’uno Stato di vincere una guerra atomica senza subire
danni eccessivi, ossia di sferrare un “primo colpo” (first
strike) parando la successiva rappresaglia. Quando si
dispone di migliaia di testate e missili nucleari, come gli USA,
è facile annientare un rivale con una guerra atomica: il grosso
problema è riuscire ad evitare d’essere annientati a propria
volta se il nemico, come la Russia, ha a sua volta migliaia di
armi nucleari con cui rispondere. Ecco dunque l’idea dello scudo
ABM (anti-missili balistici), il sogno di Reagan riesumato da
Bush e per niente accantonato da Obama. Resterà ancora a lungo
una delle principali pietre della discordia tra Mosca e
Washington. Infatti, il Cremlino non si beve la storia che lo
scudo ABM sia rivolto contro l’Iràn e la Corea del Nord, e nel
mio libro spiego dettagliatamente il perché.
Lei si sofferma sulla politica estera statunitense dell’ultimo
decennio sviscerando le differenze tra idealisti e realisti alla
Casa Bianca. Cosa ha cambiato l’arrivo di Barack Obama alla Casa
Bianca?
Ha cambiato molto, ma probabilmente meno di quello che avrebbe
potuto se non ci fosse stata la crisi finanziaria del 2008.
Obama era portatore d’una geostrategia alternativa a quella
neoconservatrice, meno fissata sul Vicino e Medio Oriente e più
attenta agli equilibri globali nel loro complesso. Essa
comprendeva anche una non dichiarata strategia anti-russa di
tipo brzezinskiana. La stessa distensione con l’Iràn era ed è
mirata soprattutto a rivolgere la potenza persiana contro Mosca
in funzione di contenimento sul fianco meridionale.
Inutile dire che la crisi ha scompaginato i piani. Gli USA si
sono ritrovati con l’acqua alla gola, ed Obama s’è accontentato
di cercare di salvarne la supremazia mondiale. L’ideologismo di
Bush è stato sostituito con un po’ di sana Realpolitik, e
la minaccia ed uso della forza militare sono oggi stemperate dal
ricorso alla diplomazia come via prediletta. Ma ciò non è
sufficiente. Washington, capendo di non farcela più da sola, sta
cercando di cooptare qualche grande potenza come stampella della
propria egemonia. All’inizio Obama ha cercato di formare il
famoso “G-2” con la Cina, ma ben presto la tensione ha preso a
montare ed oggi Washington e Pechino si guardano in cagnesco
come non succedeva da decenni. Così Obama ha messo nel mirino la
Cina, ed ha pensato bene di corteggiare la Russia. Il
“leviatano” talassocratico ed il “behemoth” tellurocratico si
sono già trovati fianco a fianco contro una potenza del
Rimland, ossia del margine continentale dell’Eurasia (mi
riferisco alla Germania nel secolo scorso), ma non credo che ciò
si ripeterà oggi. Gli USA superpotenza avrebbero potuto cooptare
la Russia di El’cin e del primo Putin, ma si sono rivelati
troppo avidi di potere ed hanno finito con l’allontanarla. Oggi
sono ancora la potenza egemone, e perciò suscitano invidia ed
ostilità, ma sono un egemone zoppo, e dunque appoggiarlo non dà
più gli stessi vantaggi d’un tempo. Allearsi con qualcuno che ti
vorrebbe come stampella del suo potere traballante non è una
prospettiva così allettante. Il Cremlino prenderà altre strade.
Solo quando gli USA si saranno ridimensionati al rango di grande
potenza inter pares, allora si potrà ridiscutere
d’alleanze strategiche.
L’8 dicembre 1991 i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia,
riuniti a Brest, proclamarono la dissoluzione dell’Unione
Sovietica, che Gorbačev fu costretto ad accettare suo malgrado.
L’ex presidente russo Vladimir Putin, ora primo ministro, ha
affermato che la dissoluzione dell’Urss è la stata la più grande
catastrofe geopolitica del XX secolo. È d’accordo?
Il termine “catastrofe” sottintende un giudizio di valore, e
dunque è soggettivo. Restando sul merito, è indubbio che il
crollo dell’URSS, ossia della potenza terrestre dell’Heartland
che conteneva la superpotenza marittima, è stato un evento
epocale. E dal punto di vista dei Russi, non si può che
considerare catastrofico. Ma non solo dal loro. Il crollo della
diga sovietica – una diga criticabile e controversa fin quanto
si vuole – ha aperto la strada al tentativo egemonico degli USA,
col suo contorno di prevaricazione e guerre. Per gli
Statunitensi la disgregazione dell’URSS è stata un successo, per
i Polacchi una benedizione, per i Cubani, i Siriani o i
Palestinesi una disgrazia.
Vladimir Putin è stato, tra luci ed ombre, il simbolo della
ritorno della Russia sulla Grande Scacchiera. Lei scrive che la
“Dottrina Putin” può essere interpretata come un realismo in
salsa russa, fondato sull’accorta tessitura d’alleanze
intra-continentali con la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia e
l’Europa Occidentale. Cioè?
Ho ripreso la definizione che cita da Tiberio Graziani,
direttore della rivista “Eurasia”. In Russia, dopo la fine del
comunismo sono emerse due visioni ideologiche: quella
eurasiatica, che vede negli USA il nemico storico da combattere
ad ogni costo, e quella occidentalista, che vede nell’Ovest il
beniamino da emulare e compiacere ad ogni costo. La Dottrina
Putin esula da questi schemi e si pone nel mezzo degli “opposti
estremismi”. Putin ha adottato linguaggi e formalità cari agli
occidentali, ed ha a lungo considerato prioritari i rapporti con
l’Europa e gli USA. Ma non è mai stato arrendevole e
rinunciatario, non ha mai rinunciato a difendere il ruolo della
Russia nel mondo ed il suo “spazio vitale” nell’Heartland.
Quando ha verificato che con Washington non c’erano spazi di
dialogo, si è rivolto altrove. Le alleanze intra-continentali da
lei citate servono a creare un “secondo anello di sicurezza” (il
primo dovrebbe essere il “estero vicino”) attorno alla Russia.
L’obiettivo finale è estromettere la talassocrazia, ossia gli
USA, dall’intera massa continentale eurasiatica, per mettere
definitivamente in sicurezza la Russia.
Secondo Parag Khanna i “tre imperi” del nuovo mondo multipolare
sarebbero Usa, Cina e Unione Europea, mentre la Russia farebbe
parte del “secondo mondo”. Lei non è d’accordo. Perché?
Perché la visione di Parag Khanna si fonda sostanzialmente su
valutazioni di tipo economico e sulle sue simpatie personali.
L’economia è importante ma non rivela tutto. Ad esempio,
l’Unione Europea, si sa, è un gigante economico ma un nano
politico. Non è neppure uno Stato, bensì un’accozzaglia di Stati
nazionali che, come stanno dimostrando gli eventi attuali, in
mezzo alla tempesta preferiscono pensare ognuno per sé. La
Russia ha un ingente patrimonio geopolitico, in termini
geografici, militari ed energetici, che può giocare
efficacemente sulla grande scacchiera mondiale. Mosca è ancora
al centro della politica internazionale, considerarla parte del
“secondo mondo” è ingiustificato.
La
Cina è e sarà comunque uno dei protagonisti di questo secolo e
intorno al ruolo di Pechino si gioca ovviamente il futuro di
Washington. Riprendo allora le sue parole: «Per gli Usa il
contenimento della Cina dovrebbe avvenire attraverso due “cani
da guardia” posti al suo fianco: l’India e il Giappone. Davvero
Nuova Delhi e Tokio sono disposti a ricoprire il ruolo che
Washington vorrebbe affibbiare loro, oppure preferiranno unirsi
a Pechino per creare una “sfera di co-prosperità” asiatica?»
È un dilemma che non ha ancora trovato risposta. L’India
sembrava più vicina alla Cina qualche anno fa, quando entrò nel
gergo comune degli addetti ai lavori il termine “Cindia”. Al
contrario, il Giappone che qualche anno fa pareva nemico
irriducibile di Pechino oggi gli si sta riavvicinando. La
situazione è fluida e difficile da decifrare, ma la sensazione è
che Nuova Delhi e Tokio cercheranno la vincita sicura:
aspetteranno di capire con certezza chi avrà la meglio tra Cina
e USA, e solo allora punteranno tutto sul cavallo vincente.
Spostiamoci infine Oltreoceano, dove comunque i grandi attori
sono sempre gli stessi. Nel libro scrive che Obama sembra deciso
a recuperare l’influenza sul “cortile di casa”, e con qualsiasi
mezzo. Russia e Cina, invece, offrono una sponda diplomatica
alle nuove potenze emergenti come Brasile e Venezuela. I
prossimi conflitti sono programmati?
Il Sudamerica è storicamente un’area molto pacifica. Ma ciò è
dovuto anche alla sua storia di marginalità nel quadro
geopolitico, ed all’egemonia a lungo incontrastata degli USA.
Oggi questi due fattori stanno venendo meno. In Sudamerica sta
emergendo una grande potenza mondiale – il Brasile – mentre il
controllo degli USA sul “cortile di casa” è stato seriamente
intaccato. Cina e Russia si fanno beffe della Dottrina Monroe,
punto fermo della strategia statunitense da un paio di secoli.
Washington passerà all’azione, o meglio alla reazione, e non
sappiamo ancora quali strumenti sceglierà.
Maggiore
integrazione economica? L’ALCA è stato bocciato da quasi tutti i
paesi sudamericani.
Legami
militari? In Sudamerica la Russia ha superato gli USA
nell’esportazione di armi.
Influenza culturale? I sentimenti anti-statunitensi,
tradizionalmente radicati nell’area, appaiono al massimo
storico, ed il risveglio della comunità indigena porta ad una
riscoperta del proprio retaggio più arcaico, piuttosto che
all’adozione della way of life nordamericana.
Colpi di
Stato? In Venezuela ci hanno provato ma fu un fallimento; un
pesce molto più piccolo come l’Honduras è caduto nella rete, ma
si ritrova quasi completamente isolato nella regione.
Guerre
per procura? I paesi sudamericani sono molto restî a scendere in
guerra tra loro, se non altro perché sono tutti instabili al
loro interno e temono gravi contraccolpi domestici. Attorno alla
Colombia la tensione sta montando, e molto decideranno le
imminenti elezioni presidenziali. Santos ricorda per certi versi
Saakašvili: è una testa calda, con lui tutto sarebbe possibile.
Mockus, al contrario, cercherebbe la distensione coi vicini ed
allenterebbe i legami con gli USA. In ogni caso, per Bogotà
sarebbe una mossa come minimo azzardata andare in guerra coi
vicini, quando non controlla neppure il proprio territorio
nazionale.
Guerre
in prima persona? Sono da escludersi almeno finché le truppe
nordamericane rimangono impantanate in Iràq e Afghanistan. Anche
dopo aver evacuato i due paesi mediorientali, l’esperienza
inciderà negativamente sulla propensione alla guerra nei
prossimi anni. Certo, non sono eventi traumatici come il Vietnam
– avendovi preso parte soldati professionisti e non cittadini
coscritti – ma il paese è comunque demoralizzato e le casse
vuote. Inoltre i paesi sudamericani si stanno integrando:
attaccarne uno significherebbe rovinare i rapporti con tutti.
Per tali
ragioni, ritengo che nei prossimi anni Washington si limiterà a
sovvenzionare e “pompare” a livello mediatico i propri campioni
in loco: lo sta già facendo in Brasile, anche se
difficilmente il Partito dei Lavoratori di Lula sarà scalzato
dal potere. In qualche “repubblica delle banane” centroamericana
potranno pure organizzare dei golpe, ma l’arma
tradizionale dell’influenza nordamericana sui vicini meridionali
appare sempre più spuntata.
La
perdita dell’egemonia sul continente americano rappresenterà una
svolta epocale per gli USA e la geopolitica mondiale. Gli Stati
Uniti d’America, potenza continentale, hanno potuto inventarsi
potenza marittima contando sull’isolamento conferito
dall’assenza di nemici sulla terraferma: dal Novecento hanno
perciò potuto proiettarsi con sicurezza sugli oceani e al di là
degli stessi. Con l’emergere di forti rivali nelle Americhe, gli
USA perderebbero uno dei loro storici vantaggi strategici:
smetterebbero di essere “un’isola” geopolitica e ritornerebbero
una potenza continentale.
Quali
sono questi “rivali” che gli USA potranno trovare nel
continente? Facile rispondere il Brasile, su tutti, che ha
dimensioni e demografia adatte a sfidare la supremazia di
Washington nell’emisfero occidentale. Facilissimo citare il
“blocco bolivariano”, paesi che presi singolarmente sono deboli,
ma che se dovessero riuscire ad unirsi, resi più forti dalla
veemenza ideologica, creerebbero non pochi problemi ai
gringos, come li chiamano loro. E non scordiamoci il
Messico. Il Messico è una nazione molto grande, direttamente
confinante con gli USA, e coltiva – anche se silenziosamente –
storiche rivendicazioni territoriali sul sud degli Stati Uniti.
La sua economia è in forte crescita: fra pochi anni sarà
considerata una grande potenza, almeno in quest’ambito. Fatica a
tenere sotto controllo la parte settentrionale del paese, ma è
quella meno popolata e più povera. In compenso ha un’arma
atipica. Samuel Huntington, poco prima di morire, lanciò un
avvertimento ai propri connazionali: di guardarsi dall’enorme
aumento numerico dei Latinos – per lo più messicani –
negli USA. I Latinos sono concentrati in pochi Stati:
California, Texas, Arizona, New Mexico ed anche Florida (qui si
tratta di cubani e portoricani). Giungono in massa e tendono a
conservare la propria lingua, la propria religione ed il proprio
modo di vivere. Hanno già acquisito un ingente peso elettorale,
ma in massima parte non sono integrati nella società
statunitense. Nel Sud, i cartelli criminali del narcotraffico
hanno costituito veri e propri “Stati nello Stato”, che
spadroneggiano nei quartieri latini, sanno autofinanziarsi
illecitamente tramite il traffico di droga e la prostituzione,
hanno veri e propri eserciti armati fino ai denti. Un soggetto
ideale per condurre una guerra asimmetrica, se se ne creassero
le condizioni. Questi cartelli del narcotraffico hanno eguale
potere al di là del confine, nel settentrione del Messico, e
forti collusioni con le autorità di Città del Messico. Non è un
caso che negli USA da alcuni anni stiano cercando d’arginare
l’immigrazione e d’integrare i Latinos nella società,
mentre in Messico non fanno nulla per dissuadere i propri
cittadini dall’espatriare nelle terre che gli Statunitensi
rubarono al Messico centocinquant’anni fa. La situazione è
esplosiva, e qualche analista – come George Friedman – se n’è
accorto.
Grazie per l’intervista.
Tratto da:
megachip.info
Ecco il sommario dell’opera:
Prefazione: Dalla geopolitica degli
stati a quella dei flussi del generale
Fabio Mini
Capitolo 1: Terra contro Mare
Teorie sullo scontro terra-mare: Mahan, Mackinder,
Schmitt, Spengler, Haushofer e Spykman. Loro
applicazione pratica nella storia dell’Ottocento e
del Novecento, fino alla Guerra Fredda inclusa.
Capitolo 2: Attacco al cuore della Terra
Dinamiche del collasso sovietico (Gorbacioff).
Teoria geopolitica statunitense post-Guerra Fredda:
Brzezinski. Fasi dell’aggressione “talassocratica”
(statunitense) al cuore continentale: a) espansione
della NATO; b) smembramento della Jugoslavia; c)
rivoluzioni colorate; d) nuove rotte energetiche per
sottrarre gl’idrocarburi caucasici e centroasiatici
alla Russia.
Capitolo 3: Idealismo contro realismo
Teoria “idealista” delle relazioni internazionali:
il neoconservatorismo statunitense. Applicazione dei
dettami neoconservatori da parte
dell’amministrazione Bush. Lo scudo ABM (anti
missili balistici) e la ricerca della supremazia
nucleare. Fallimenti della politica neoconservatrice
e reazione dei realisti.
Capitolo 4: La risposta russa
Teorie geopolitiche russe post-Guerra Fredda:
Zjuganov, Dugin, Gadzhiev. El’cin, le riforme
neoliberali e la Dottrina Kozyrev. Putin e le
riforme centralizzatrici. Il pragmatismo geopolitico
di Putin e la risposta all’aggressività
statunitense: a) ripristino dell’influenza
sull’Estero vicino; b) cooperazione con la Cina in
Asia Centrale; c) evoluzione delle rotte energetiche
e strategie connesse; d) ammodernamento
dell’arsenale nucleare.
Capitolo 5: La Tigre e il Dragone
Affinità storico-geografiche tra India e Cina.
Regioni geopolitiche dell’India. Ragioni del
maggiore sviluppo economico della Cina.
Interdipendenza USA-Cina. Geostrategia cinese: a)
basso profilo diplomatico; b) sicurezza degli
approvvigionamenti energetici (Asia Centrale,
Africa, filo di perle). Strategia statunitense per
il contenimento della Cina. Distensione
sino-giapponese e suo significato geopolitico.
Capitolo 6: Lo Stato-canaglia e il piccolo
Satana
Il bipolarismo USA-URSS nel Vicino Oriente. Il
declino del nazionalismo panarabo e l’ascesa
dell’islamismo. L’Iràn come antagonista regionale di
Israele, con sullo sfondo la lotta tra Cina-Russia e
USA. Il ruolo di peso determinante della Turchia. La
situazione interna all’Iran. Il piano israeliano per
risolvere la questione palestinese.
Capitolo 7: Il risveglio dell’America
Indiolatina
Definizione di “America Indiolatina”. Il “fattore
indios” nella regione. Dottrina Monroe e
“Destino manifesto”: politica americana degli USA
nell’Ottocento e nel Novecento (caso esemplare di
Cuba). Corollario Roosevelt e contenimento del
comunismo. La crescente autunomia dell’America
Indiolatina: il blocco bolivariano ed i progetti
d’integrazione. Ruolo di Russia e Cina. Centralità
del Brasile. Obama e le nuove tensioni regionali
(Honduras, Colombia, Venezuela).
Capitolo 8: Epilogo
Le crisi economiche come fattore di mutamento delle
gerarchie e dei sistemi internazionali: 1874, 1929,
1971-73. Genesi della crisi del 2008. La strategia
“reflazionaria” degli USA ed i rischi per la
stabilità dell’economia mondiale. L’ascesa delle
potenze emergenti e la prossima fine dell’egemonia
del dollaro. Raffronto tra il sistema unipolare e
quello multipolare.
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