Usa-Russia: superpotenze in lotta sui ring centro-asiatici
di Massimiliano Ferraro - Giornale Friuli 24/4/2010
Il
Kirghizistan
è stato un
ring. Uno
dei luoghi
lontani dai
riflettori
della
politica
internazionale
in cui Usa e
Russia
possono
darsele di
santa
ragione.
Senza
arbitri,
senza
pubblico, il
combattimento
è silenzioso
e spesso
senza
regole.
Mentre i
paesi
occidentali
si
rallegrano
per
l’accordo di
Praga, con
cui le due
superpotenze
hanno deciso
la riduzione
degli
arsenali
nucleari,
nella
lontana Asia
Centrale si
continua a
manifestare,
chiara e
inequivocabile,
la condotta
che la
Russia ha
costantemente
perseguito
in politica
estera negli
ultimi tre
secoli: la
logica del
dominio,
dell’espansione
oltre i
propri
confini.
Il principio
per Putin e
Medvedev è
semplice,
così come lo
era per lo
zar e per
Stalin: una
parte del
mondo è
sotto la
sfera di
influenza
russa e guai
a chi ci
mette le
mani.
Seguendo
questo
principio,
solo negli
ultimi anni,
Mosca ha
puntato i
piedi
sull’ipotesi
di
installazione
dello scudo
missilistico
americano in
Polonia e
Repubblica
Ceca,
scatenato
una guerra
lampo in
Georgia ed
interferito
nelle
elezioni in
Ucraina.
Tutte
nazioni che
avevano
manifestato
apertamente
il loro
desiderio di
uscire dal
controllo di
Mosca per
avvicinarsi
al blocco
occidentale.
Nel caso di
Georgia e
Ucraina lo
scontro di
interessi è
stato
addirittura
plateale: i
milioni di
dollari
americani,
nascosti
sotto i
fragili
sogni di
democrazia
orchestrati
dall’ideologo
del Dio
denaro
George Soros,
sono stati
buttati al
vento nelle
Rivoluzioni
Colorate,
con il
fallito
scopo di far
cambiare
padrone agli
stati
dell’ex
“recinto”
sovietico.
Speranze
durate pochi
anni e
cancellate
senza troppo
affanno
dalla
implacabile
Madre
Russia.
Ad inizio
aprile il
terreno
della
battaglia
segreta tra
Usa e Russia
si è
spostato in
Kirghizistan.
I soldi
degli
americani
nel 2005
erano
arrivati
anche lì.
C’era stata
la
Rivoluzione
dei Tulipani
che aveva
portato al
potere
Kurmanbek
Bakiev, un
presidente
che Putin e
compagni
hanno
sopportato
fino a che
non ha
tradito
l’enorme
promessa di
chiudere la
base
americana di
Manas, in
territorio
kirghizo.
Una base
molto
importante
per il
rifornimento
dei militari
statunitensi
in
Afghanistan,
ma anche e
soprattutto
rilevante
per motivi
strategici.
Nel febbraio
del 2009, il
provvidenziale
intervento
economico di
Washingston
per far
cambiare
idea a
Bakiev ha
segnato
l’inizio
della sua
fine
politica.
Così il
sospetto che
ci sia stato
un
intervento
russo per
rovesciare
il governo,
si fa più
concreto
mano a mano
che passano
i giorni.
Putin si è
prontamente
congratulato
per
l’avvento
della nuova
classe
dirigente in
Kirghizistan,
precedendo
di molto la
diplomazia
americana,
apparsa
spiazzata
dal
repentino
stravolgimento
della
situazione
nel paese.
Nella
rituale
telefonata
di
“benedizione”,
il premier
russo ha
rivelato al
presidente
ad interim
kirghizo
Roza
Otunbayeva
la sua
personale
idea sulla
presenza
militare
straniera
nel paese:
un avamposto
straniero è
necessario e
indiscutibile,
ma in
Kirghizistan
basta una
sola base.
Quella della
Federazione
Russa,
ovviamente.
A quanto
pare la
Otunbayeva
ha risposto
prendendo
tempo,
rinnovando
di un anno
l’affitto
della base
Usa e
rimandando
di fatto la
decisione
dello
sfratto,
molto
gradita a
Mosca. Ma se
ciò non
avvenisse
nemmeno nel
2011, molti
osservatori
di “cose
russe”
malignano
che anche il
destino
della neo
premier
sarebbe
segnato. In
parole
povere ci
sarebbe
un’altra
rivoluzione.
Dagli Usa,
da sempre
non
propriamente
a loro agio
in quelle
latitudini,
sono
arrivate
fino ad ora
soltanto
reazioni
caute e
misurate. La
versione
ufficiale è
che se la
base di
Manas
venisse
chiusa, non
sarebbe un
dramma visto
che si
tratta di un
campo
militare di
secondaria
importanza
nello
scacchiere
strategico
americano.
Ma dalle
dotte aule
della
Princeton
University,
si è già
alzata una
voce fuori
dal coro per
affermare
che la
questione
non è
propriamente
così
semplice e
che il golpe
kirghizo
deve
necessariamente
venire letto
come una
arrogante
mossa di
Mosca. È
Robert Finn,
ex
ambasciatore
americano in
Afghanistan
e
Tagikistan,
uno dei
pochi che
conosce a
fondo
l’importanza
della
presenza
americana in
Asia
Centrale.
“Questa è
una loro
vittoria”,
ha tagliato
corto Finn,
lasciando
intendere
che quello
che è
accaduto in
Kirghizistan
è stato
soltanto
l’ennesimo
round di un
lungo match
politico-militare,
prima che lo
scontro tra
Usa e Russia
si sposti su
un altro
ring
appartato
del mondo.
Si può anche
tirare ad
indovinare
quale sarà.
Basta
prendere in
mano la
carta
geografica
dell’Asia
Centrale
perché
l’occhio
cada
sull’Uzbekistan.