Il
discorso di Obama a Oslo "Una pace giusta e
duratura"
Le parole del presidente degli Stati Uniti in
occasione dell'accettazione del premio Nobel per
la pace: "A confronto di alcuni dei giganti
della storia che hanno ricevuto questo premio i
miei successi sono poca cosa"
Traduzione di Fabio Galimberti - LA REPUBBLICA
10 dicembre 2009
Vostra maestà, vostra altezza reale, illustri
membri del Comitato norvegese per il premio
Nobel, cittadini americani e cittadini del mondo
intero: ricevo questo onorificenza con profonda
gratitudine e grande umiltà. È un premio che
parla alle nostre aspirazioni più alte, che ci
dice che, pur con tutta la crudeltà e le
difficoltà del nostro mondo, non siamo
unicamente prigionieri del fato. Quello che
facciamo conta, e possiamo piegare la storia nel
senso della giustizia.
Ma sarei negligente se sorvolassi sulle forti
polemiche che ha suscitato vostra generosa
decisione. In parte queste polemiche nascono dal
fatto che io sono all'inizio, e non al termine,
delle mie fatiche. A confronto di alcuni dei
giganti della storia che hanno ricevuto questo
premio - Schweitzer e King, Marshall e Mandela -
i miei successi sono poca cosa. E poi ci sono
gli uomini e le donne in tutto il mondo che
vengono incarcerati e picchiati perché cercano
giustizia, ci sono quelli che lavorano duramente
nelle organizzazioni umanitarie per alleviare le
sofferenze, ci sono quei milioni senza nome che
con i loro atti silenziosi di coraggio e di
compassione sono di ispirazione anche per il più
cinico degli individui. Non posso contestare le
ragioni di chi sostiene che questi uomini e
queste donne - alcuni noti, altri sconosciuti a
chiunque tranne che a quelli che ricevono il
loro aiuto - meritano questo riconoscimento
molto più di quanto non lo meriti io.
Ma forse il problema maggiore è che io sono il
comandante in capo di una nazione impegnata in
due guerre. Una di queste guerre sta lentamente
esaurendosi. L'altra è un conflitto che
l'America non ha cercato, un conflitto a cui
prendono parte insieme a noi altri quarantatré
Paesi, compresa la Norvegia, nel tentativo di
difendere noi stessi e tutte le nazioni da
ulteriori attacchi.
Ciò non toglie però che siamo in guerra e che io
sono responsabile del dispiegamento sul fronte,
in una terra lontana, di migliaia di giovani
americani. Alcuni di loro uccideranno. Alcuni
saranno uccisi. Per questo vengo qui con l'acuta
consapevolezza di quale sia il costo di un
conflitto armato, carico di difficili
interrogativi sul rapporto fra guerra e pace e
sui nostri sforzi per sostituire la prima con la
seconda.
Non sono interrogativi nuovi. La guerra, in una
forma o nell'altra, ha accompagnato l'uomo fin
dalle origini. Agli albori della storia nessuno
ne metteva in discussione la moralità: la guerra
era semplicemente un fatto, come la siccità o la
malattia; era il modo con cui le tribù e poi le
civiltà cercavano di acquisire potere e
risolvevano le loro divergenze.
Col tempo, mentre i codici giuridici cercavano
di mettere sotto controllo la violenza
all'interno dei gruppi, filosofi, uomini di
chiesa e statisti cercavano di regolamentare la
forza distruttiva della guerra. Emerse il
concetto di "guerra giusta", che sottintendeva
che la guerra è giustificata solo quando
rispetta determinate condizioni: e cioè se viene
mossa come ultima ratio o per autodifesa, se la
forza usata è proporzionata e se, nei limiti del
possibile, i civili vengono risparmiati dalle
violenze.
Raramente nella storia si è vista una guerra che
rispondesse al concetto di guerra giusta. La
capacità degli esseri umani di inventare nuovi
modi per ammazzarsi a vicenda si è rivelata
inesauribile, al pari della nostra capacità di
escludere dalla compassione chi ha un aspetto
diverso o prega un Dio diverso. Le guerre fra
eserciti hanno lasciato il posto alle guerre fra
nazioni, guerre totali dove la distinzione fra
combattenti e civili diventava meno netta.
Nell'arco di trent'anni, per due volte questo
continente è precipitato nel gorgo della
carneficina. E benché sia difficile immaginare
una causa più giusta della sconfitta del Terzo
Reich e delle potenze dell'Asse, la seconda
guerra mondiale fu un conflitto dove il numero
complessivo delle vittime fra i civili superò
quello dei soldati caduti.
Sulla scia di una distruzione tanto vasta, e con
l'avvento dell'era nucleare, divenne chiaro sia
ai vincitori che ai vinti che il mondo aveva
bisogno di istituzioni che prevenissero un'altra
guerra mondiale. E così, venticinque anni dopo
la bocciatura da parte del Senato americano
della Lega delle Nazioni (un'idea per la quale
Woodrow Wilson vinse questo premio), l'America
guidò il mondo alla costruzione di
un'architettura per mantenere la pace: il piano
Marshall e le Nazioni Unite, strumenti per
regolare la guerra, trattati per difendere i
diritti dell'uomo, impedire genocidi e limitare
le armi più pericolose.
Sotto molti punti di vista, questi sforzi ebbero
successo. Sì, sono state combattute guerre
terribili e sono state commesse atrocità. Ma non
c'è stata nessuna terza guerra mondiale. La
guerra fredda si è conclusa con folle entusiaste
che distruggevano un muro. I commerci hanno
legato insieme gran parte del pianeta. Miliardi
di individui sono usciti dalla povertà. Gli
ideali di libertà, autodeterminazione,
uguaglianza e Stato di diritto si sono fatti
timidamente strada. Noi siamo gli eredi della
forza d'animo e della lungimiranza delle
generazioni passate, ed è un'eredità di cui il
mio Paese va giustamente fiero.
Ora che è passato un decennio dall'inizio del
nuovo secolo, questa vecchia architettura
comincia a cedere sotto il peso di nuove
minacce. Il mondo forse non trema più al
pensiero di una guerra fra due superpotenze
nucleari, ma la proliferazione delle armi
nucleari rischia di rendere più probabile una
catastrofe. Il terrorismo è un'arma tattica
usata da molto tempo, ma la tecnologia moderna
consente a pochi, piccoli uomini con una rabbia
smisurata di assassinare un numero terrificante
di innocenti.
Inoltre, le guerre fra nazioni sono sostituite
sempre più dalle guerre all'interno delle
nazioni. La resurrezione di conflitti etnici o
settari, la crescita di movimenti
secessionistici, guerriglie e Stati allo sbando
intrappolano sempre di più i civili in un caos
senza fine. Nelle guerre odierne vengono uccisi
molti più civili che soldati: si gettano i semi
di conflitti futuri, si devasta l'economia, si
lacera la società civile, si accumulano i
profughi e si lasciano segni indelebili sui
bambini.
Non ho qui con me, oggi, una soluzione
definitiva ai problemi della guerra. Quello che
so è che per affrontare queste sfide servirà la
stessa capacità di visione, lo stesso duro
lavoro, la stessa perseveranza di quegli uomini
e di quelle donne che alcuni decenni fa hanno
agito con tanto coraggio. E servirà un
ripensamento dei concetti della guerra giusta e
degli imperativi di una pace giusta.
Dobbiamo partire della consapevolezza di una
verità difficile da mandare giù: non riusciremo
a sradicare il conflitto violento nel corso
della nostra vita. Ci saranno occasioni in cui
le nazioni, agendo individualmente o
collettivamente, troveranno non solo necessario,
ma moralmente giustificato l'uso della forza.
Dico questa cosa pensando a quello che disse
anni fa, in questa stessa cerimonia, Martin
Luther King: "La violenza non porta mai una pace
permanente. Non risolve nessun problema della
società, anzi ne crea di nuovi e più
complicati". Io, che sono qui come conseguenza
diretta dell'opera di una vita del reverendo
King, sono la testimonianza vivente della forza
morale della nonviolenza. Io so che non c'è
nulla di debole, nulla di passivo, nulla di
ingenuo, nelle idee e nella vita di Gandhi e di
Martin Luther King.
Ma in quanto capo di Stato che ha giurato di
proteggere e difendere la mia nazione non posso
lasciarmi guidare solo dai loro esempi. Devo
affrontare il mondo così com'è e non posso
rimanere inerte di fronte alle minacce contro il
popolo americano. Perché una cosa dev'essere
chiara: il male nel mondo esiste. Un movimento
nonviolento non avrebbe potuto fermare le armate
di Hitler. I negoziati non potrebbero convincere
i leader di al Qaeda a deporre le armi. Dire che
a volte la forza è necessaria non è
un'invocazione al cinismo, è un riconoscere la
storia, le imperfezioni dell'uomo e i limiti
della ragione.
Sollevo questo punto perché in molti Paesi oggi
c'è una profonda ambivalenza sulle azioni
militari, qualunque sia la causa che le muove.
In certi casi, a questa ambivalenza si aggiunge
una diffidenza istintiva nei confronti
dell'America, l'unica superpotenza militare del
pianeta.
Ma il mondo deve ricordarsi che non sono state
solo le istituzioni internazionali, non sono
stati solo i trattati e le dichiarazioni a
portare stabilità al pianeta dopo la fine della
seconda guerra mondiale. A prescindere dagli
errori che abbiamo commesso, il dato di fatto
puro e semplice è questo: gli Stati Uniti
d'America hanno contribuito per più di
sessant'anni a proteggere la sicurezza globale,
con il sangue dei nostri cittadini e la forza
delle nostre armi. Lo spirito di servizio e di
sacrificio dei nostri uomini e donne in uniforme
ha promosso la pace e la prosperità, dalla
Germania alla Corea, e ha consentito alla
democrazia di insediarsi in luoghi come i
Balcani. Abbiamo sopportato questo fardello non
perché cerchiamo di imporre la nostra volontà.
Lo abbiamo fatto per interesse illuminato,
perché cerchiamo un futuro migliore per i nostri
figli e nipoti, e siamo convinti che la loro
vita sarà migliore se altri figli e nipoti
potranno vivere in libertà e prosperità.
Dunque sì, gli strumenti della guerra
contribuiscono a preservare la pace. Ma questa
verità deve coesistere con un'altra, e cioè che
la guerra, per quanto giustificata possa essere,
porterà sicuramente con sé tragedie umane. C'è
gloria nel coraggio e nel sacrificio di un
soldato, c'è l'espressione di una devozione per
il proprio Paese, per la causa e per i
commilitoni. Ma la guerra in sé non è mai
gloriosa e non dobbiamo mai sbandierarla come
tale.
La nostra sfida dunque consiste in parte nel
riconciliare queste due verità apparentemente
inconciliabili. La guerra a volte è necessaria e
la guerra è, a un certo livello, espressione di
sentimenti umani. Concretamente, dobbiamo
indirizzare i nostri sforzi al compito che il
presidente Kennedy invocava molto tempo fa.
"Concentriamoci", diceva lui, "su una pace più
pratica, più raggiungibile, basata non su un
improvviso capovolgimento della natura umana, ma
su una graduale evoluzione delle istituzioni
umane".
Come dovrebbe essere questa evoluzione? Quali
potrebbero essere queste misure pratiche?
Per cominciare, io sono convinto che tutte le
nazioni, sia le nazioni forti che le nazioni
deboli, devono aderire a dei parametri per
regolare l'uso della forza. Io, come ogni capo
di Stato, mi riservo il diritto di agire
unilateralmente, se necessario, per difendere la
mia nazione. Resto tuttavia convinto che aderire
a delle regole sia qualcosa che dà maggior forza
a chi lo fa e che isola - e indebolisce - chi
non lo fa.
Il mondo si è stretto intorno all'America dopo
gli attacchi dell'11 settembre e continua a
sostenere i nostri sforzi in Afghanistan in
virtù dell'orrore suscitato da quegli attacchi
insensati e del principio riconosciuto
dell'autodifesa. Allo stesso modo, il mondo ha
riconosciuto la necessità di affrontare Saddam
Hussein quando questi invase il Kuwait, un
consenso che inviò un messaggio chiaro a tutti
sul prezzo che devi pagare se vuoi compiere
un'aggressione.
L'America non può pretendere che gli altri
rispettino le regole della strada se lei si
rifiuta di rispettarle. Perché quando non lo
facciamo le nostre azioni appaiono arbitrarie e
minano la legittimità di interventi futuri, non
importa se giustificati o meno.
Questo diventa particolarmente importante quando
lo scopo dell'azione militare va al di là
dell'autodifesa o della difesa di una nazione da
un aggressore. Tutti siamo alle prese sempre di
più con difficili interrogativi su come impedire
massacri di civili da parte del loro stesso
governo, o su come fermare una guerra civile che
rischia di risucchiare nelle violenze e nelle
sofferenze un'intera regione.
Io sono convinto che l'uso della forza possa
essere giustificato per ragioni umanitarie, come
è stato nei Balcani o in altri posti segnati
dalla guerra. Restare a guardare lacera la
nostra coscienza e può condurre a interventi più
costosi in un secondo momento. Ecco perché tutte
le nazioni responsabili devono accettare il
ruolo che possono giocare le forze armate, con
un mandato chiaro, per il mantenimento della
pace.
L'impegno dell'America nei confronti della
sicurezza del mondo non verrà mai meno. Ma in un
mondo dove le minacce sono più diffuse, e le
missioni più complesse, l'America non può agire
da sola. Questo vale per l'Afghanistan. Questo
vale per Stati allo sbando come la Somalia, dove
il terrorismo e la pirateria si accompagnano a
fame e sofferenze. E purtroppo continuerà a
valere ancora per anni a venire nelle regioni
instabili.
I dirigenti e i soldati dei Paesi della Nato, e
di altri Paesi amici e alleati, dimostrano
questa verità attraverso la capacità e il
coraggio di cui hanno dato prova in Afghanistan.
Ma in molti Paesi c'è uno scollamento fra gli
sforzi delle truppe e l'ambivalenza della
cittadinanza. Io capisco i motivi
dell'impopolarità della guerra. Ma so anche
questo: pensare che la pace sia auspicabile di
solito non basta per ottenere la pace. La pace
richiede responsabilità. La pace comporta
sacrificio. Ecco perché la Nato resta
indispensabile. Ecco perché dobbiamo rafforzare
le operazioni di peacekeeping dell'Onu e
regionali, e non lasciare che siano pochi Paesi
a farsene carico. Ecco perché rendiamo omaggio a
chi ritorna a casa da operazioni di peacekeeping
e addestramento, a Oslo e a Roma, a Ottawa e a
Sydney, a Dacca e a Kigali: rendiamo omaggio a
queste persone non come costruttori di guerra,
ma come edificatori di pace.
Voglio dire un'ultima cosa sull'uso della forza.
Anche quando prendiamo la difficile decisione di
cominciare una guerra, dobbiamo pensare
chiaramente a come questa guerra va combattuta.
Il Comitato per il Nobel lo riconobbe assegnando
il primo Nobel per la pace a Henry Dunant, il
fondatore della Croce rossa e uno dei principali
promotori delle Convenzioni di Ginevra.
Laddove è necessario usare la forza, abbiamo un
interesse morale e strategico ad attenerci a
determinate regole di comportamento. E anche
quando affrontiamo un avversario crudele, che
non rispetta nessuna regola, sono convinto che
gli Stati Uniti debbano continuare a farsene
portatori. È questo che ci rende diversi da
coloro che combattiamo. È anche da qui che
ricaviamo la nostra forza. È per questo che ho
vietato la tortura. È per questo che ho ordinato
la chiusura della prigione di Guantánamo. Ed è
per questo che ho riaffermato l'impegno
dell'America al rispetto delle Convenzioni di
Ginevra. Perdiamo noi stessi quando scendiamo a
compromessi proprio su quegli ideali che
lottiamo per difendere. E onoriamo quegli ideali
se li rispettiamo non soltanto quando è facile
farlo, ma anche quando è difficile.
Ho parlato degli interrogativi che dobbiamo
tenere presenti nel cuore e nella mente quando
scegliamo di muovere guerra. Ma ora voglio
soffermarmi sugli sforzi che possiamo fare per
evitare scelte tanto tragiche, e voglio parlare
di tre vie per costruire una pace giusta e
duratura.
La prima riguarda l'approccio da adottare nei
confronti di quelle nazioni che violano le
regole e le leggi: sono convinto che dobbiamo
sviluppare alternative alla violenza che siano
sufficientemente efficaci da modificare i
comportamenti, perché se vogliamo una pace
duratura allora le parole della comunità
internazionale devono avere un significato. Quei
regimi che violano le regole devono essere
chiamati a risponderne. Le sanzioni devono
essere realmente incisive. All'intransigenza
bisogna rispondere con un incremento della
pressione, e una pressione di questo genere può
esistere solo quando il mondo si presenta unito.
Un esempio urgente è lo sforzo per prevenire la
diffusione delle armi nucleari e per arrivare a
un mondo senza bombe atomiche. A metà del secolo
scorso, le nazioni accettarono di essere
vincolate da un trattato i cui termini sono
chiari: tutti avranno accesso all'energia
nucleare a scopi civili, chi non ha armi
nucleari rinuncerà ad averle e chi ha armi
nucleari si impegnerà a eliminarle. Io mi
impegno perché questo trattato sia rispettato. È
un punto centrale della mia politica estera e
sto lavorando insieme al presidente russo
Medvedev per ridurre gli arsenali nucleari in
possesso dei nostri due Paesi.
Ma è dovere di tutti noi insistere perché
nazioni come l'Iran e la Corea del Nord non
giochino d'azzardo col sistema. Chi afferma di
rispettare il diritto internazionale non può
distogliere lo sguardo quando le sue regole
vengono trasgredite apertamente. Chi ha a cuore
la propria sicurezza non può ignorare il
pericolo di una corsa agli armamenti in Medio
Oriente o nell'Asia orientale. Chi cerca la pace
non può restarsene inerte mentre altre nazioni
si armano per una guerra nucleare.
Lo stesso principio si applica a chi viola il
diritto internazionale per brutalizzare il
proprio stesso popolo. Il genocidio nel Darfur,
gli stupri sistematici nel Congo o la
repressione in Birmania non possono rimanere
senza conseguenze. E più saremo uniti, meno ci
troveremo a dover scegliere fra l'intervento
armato e la complicità nell'oppressione.
Questo mi conduce a un secondo punto: il tipo di
pace che vogliamo. Perché la pace non è
solamente l'assenza di conflitto aperto. Solo
una pace giusta basata sui diritti intrinseci e
sulla dignità di ogni individuo può essere
veramente duratura.
Fu questa l'intuizione alla base della
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo,
dopo la seconda guerra mondiale. Sulla scia
delle devastazioni lasciate dal conflitto,
quelle persone riconobbero che senza protezione
dei diritti umani la pace è una promessa vuota.
Eppure troppo spesso queste parole vengono
ignorate. In alcuni Paesi, il mancato rispetto
dei diritti umani viene giustificato con la
falsa tesi che questi princìpi sono figli
dell'Occidente e che sono estranei alla cultura
locale o a determinate fasi dello sviluppo di
una nazione. E all'interno dell'America c'è da
tempo tensione fra chi si autodefinisce realista
e chi si autodefinisce idealista, una tensione
che lascia intendere un'alternativa drastica fra
il perseguimento meschino di interessi e una
campagna infinita per imporre i nostri valori.
Io rifiuto questa scelta. Sono convinto che la
pace è instabile laddove ai cittadini viene
negato il diritto di parlare liberamente o di
venerare il dio che preferiscono, di scegliere i
propri leader o di riunirsi senza pericolo. Il
risentimento represso si inasprisce, e la
repressione dell'identità tribale o religiosa
può produrre violenza. Noi sappiamo che è vero
anche il contrario. Solo quando è diventata
libera l'Europa ha finalmente trovato la pace.
L'America non ha mai combattuto una guerra
contro un Paese democratico e i nostri amici più
stretti sono governi che proteggono i diritti
dei loro cittadini. Negare le aspirazioni degli
esseri umani non è nell'interesse dell'America
(e nemmeno del mondo), per quanto cinica e
ristretta possa essere la definizione di
interesse che viene adottata.
Quindi, pur rispettando la cultura specifica e
le tradizioni dei diversi Paesi, l'America
spezzerà sempre una lancia in favore di quelle
aspirazioni che sono universali. Daremo
testimonianza della silenziosa dignità di
riformatori come Aung San Suu Kyi, del coraggio
degli abitanti dello Zimbabwe che vanno a votare
nonostante i pestaggi, delle centinaia di
migliaia di persone che hanno sfilato
silenziosamente per le strade dell'Iran. È
significativo che i leader di questi governi
temano più le aspirazioni del loro stesso popolo
che il potere di un'altra nazione. Ed è dovere
di tutti i popoli liberi e di tutte le nazioni
libere far capire a questi movimenti che la
speranza e la storia sono dalla loro parte.
Voglio dire anche un'altra cosa: promuovere i
diritti umani non può voler dire limitarsi
all'esortazione. A volte questa va affiancata da
una scrupolosa azione diplomatica. Lo so che
trattare con regimi repressivi non consente
l'appagante purezza dell'indignazione. Ma so
anche che le sanzioni senza la sensibilizzazione
- e la condanna senza dialogo - possono produrre
un immobilismo disastroso. Nessun regime
repressivo sceglierà di percorrere una strada
nuova se non gli si lascerà una porta aperta.
Di fronte agli orrori della Rivoluzione
Culturale, l'incontro di Nixon con Mao appare
imperdonabile, eppure sicuramente quell'incontro
ha contribuito a spingere la Cina lungo una
strada che ha consentito a milioni di suoi
cittadini di uscire dalla povertà e di entrare
in contatto con le società aperte. Il dialogo di
papa Giovanni Paolo II con il regime polacco ha
creato spazi non solo per la Chiesa cattolica,
ma anche per leader sindacali come Lech Walesa.
Gli sforzi di Ronald Reagan per la riduzione
degli armamenti e l'appoggio alla perestrojka
non servirono solo a migliorare i rapporti con
l'Unione Sovietica, ma diedero più forza ai
dissidenti in tutta l'Europa orientale. Non c'è
una formula unica. Dobbiamo fare del nostro
meglio per bilanciare isolamento e dialogo,
pressioni e incentivi, per favorire il progresso
nel tempo dei diritti umani e della dignità.
In terzo luogo, una pace giusta non include solo
i diritti civili e politici, deve includere la
sicurezza economica e l'opportunità. Perché pace
giusta non vuol dire solo libertà dalla paura,
ma libertà dal bisogno.
È indubbiamente vero che raramente c'è sviluppo
stabile senza sicurezza; è vero anche che la
sicurezza non esiste laddove gli esseri umani
non hanno accesso a cibo a sufficienza, o
all'acqua pulita, o alle medicine di cui hanno
bisogno per sopravvivere. Non esiste laddove i
bambini non possono aspirare a un'istruzione
decente o a un lavoro che permetta di mantenere
una famiglia. L'assenza di speranza può
corrodere una società dell'interno.
Ecco perché aiutare i contadini a dare da
mangiare alla loro famiglia, o aiutare le
nazioni a dare un'istruzione ai loro figli e a
curare i malati, non è pura e semplice carità.
Ecco anche perché il mondo deve unirsi per
combattere i cambiamenti climatici. Quasi tutti
gli scienziati concordano che se non faremo
nulla ci troveremo a fare i conti con altre
siccità, altre carestie e altre migrazioni di
massa, che alimenteranno altri conflitti per
decenni. Per questo non sono solo gli scienziati
e gli ambientalisti a chiedere un'azione pronta
e decisa, sono i vertici delle forze armate nel
mio Paese e in altri Paesi, che capiscono che in
palio c'è la sicurezza di tutti.
Accordi fra nazioni. Istituzioni forti. Difesa
dei diritti umani. Investimenti nello sviluppo.
Sono tutti ingredienti fondamentali per
realizzare quell'evoluzione di cui parlava
Kennedy. Ma io sono convinto che non avremo la
volontà, o la perseveranza, di portare a termine
questo compito senza qualcosa di più, e questo
qualcosa è l'espansione costante della nostra
immaginazione morale, la convinzione che c'è
qualcosa di irriducibile che ci accomuna tutti.
Man mano che il mondo diventa più piccolo,
dovrebbe diventare più facile per gli esseri
umani riconoscere quanto siamo simili, capire
che fondamentalmente vogliamo tutti le stesse
cose, che speriamo tutti di avere la possibilità
di vivere le nostre vite in modo più o meno
felice e realizzato, per noi stessi e per le
nostre famiglie.
Ma considerando il ritmo forsennato della
globalizzazione e il livellamento culturale che
porta la modernità, non c'è da sorprendersi che
la gente abbia paura di perdere quello che più
ama delle proprie identità specifiche, la razza,
la tribù e, forse più forte di tutte, la
religione. In alcune zone questa paura ha
scatenato dei conflitti. A volte sembra
addirittura che stiamo facendo dei passi
indietro. Lo abbiamo visto in Medio Oriente, con
il conflitto fra arabi ed ebrei che sembra
inasprirsi. Lo abbiamo visto in nazioni lacerate
dalle divisioni tribali.
La cosa più pericolosa è che lo vediamo nel modo
in cui viene usata la religione per giustificare
l'omicidio di innocenti da parte di chi distorce
e svilisce la grande religione islamica, quelli
che hanno attaccato il mio Paese
dall'Afghanistan. Questi estremisti non sono i
primi a uccidere nel nome di Dio: le atrocità
delle Crociate sono ben note. Ma ci ricordano
che nessuna guerra santa può essere una guerra
giusta. Perché se credi veramente di stare
eseguendo il volere divino, allora non hai
necessità di mostrare alcun ritegno, non hai
necessità di risparmiare la donna incinta, o il
medico, o addirittura una persona della tua
stessa fede. Una visione tanto distorta della
religione non è solo incompatibile con il
concetto di pace, ma anche con lo scopo della
fede, perché l'unica regola fondamentale di ogni
religione importante è fare agli altri quello
che vorremmo che gli altri facessero a noi.
Rispettare questa legge d'amore è da sempre lo
sforzo fondamentale della natura umana. Siamo
fallibili. Commettiamo errori e cadiamo vittime
delle tentazioni dell'orgoglio, del potere, e
talvolta del male. Anche quelli fra noi che sono
animati dalle migliori intenzioni possono non
mettere riparo a un torto che viene commesso di
fronte a loro.
Ma non abbiamo bisogno di pensare che la natura
umana sia perfetta per continuare a credere che
la condizione umana possa essere perfezionata.
Non dobbiamo vivere in un mondo idealizzato per
continuare a perseguire quegli ideali che lo
renderanno un posto migliore. La nonviolenza
praticata da uomini come Gandhi e come Masrtin
Luther King forse non è pratica o non è
possibile in tutte le circostanze, ma l'amore
che loro hanno predicato, la loro fede nel
progresso dell'umanità dev'essere sempre la
stella polare che ci guida nel nostro viaggio.
Perché se perdiamo questa fede, se la liquidiamo
come qualcosa di stupido o ingenuo, se la
separiamo dalle decisioni che prendiamo sulla
guerra e sulla pace, allora perdiamo quello che
c'è di migliore nell'umanità. Perdiamo il nostro
senso di possibilità. Perdiamo la nostra bussola
morale.
Come hanno fatto altre generazioni prima di noi,
dobbiamo rifiutare quel futuro. Come disse
Martin Luther King in questa stessa occasione
molti anni fa, "io rifiuto di accettare la
disperazione come risposta finale alle ambiguità
della storia. Rifiuto di accettare l'idea che la
presente natura umana, che preferisce 'le cose
come stanno' ci renda moralmente incapaci di
conseguire l'eterno 'dover essere' con cui
dobbiamo sempre confrontarci".
E dunque, sforziamoci di conseguire il mondo che
deve essere, quella scintilla del divino che
ancora brilla in ognuna delle nostre anime. Da
qualche parte oggi, qui e adesso, un soldato
vede che il nemico ha più potenza di fuoco, ma
tiene la posizione per conservare la pace.
Da qualche parte, oggi, in questo mondo, un
giovane manifestante sa che il suo governo
reagirà con la forza bruta, ma ha il coraggio di
continuare a marciare. Da qualche parte, oggi,
una madre che deve fare i conti con una
straziante miseria trova ancora il tempo per
insegnare al suo bambino, che è convinto che in
un mondo crudele ci sia ancora spazio per i suoi
sogni.
Dobbiamo vivere secondo il loro esempio.
Possiamo riconoscere che l'oppressione non sarà
mai sconfitta, ma nonostante questo continuare a
lottare per la giustizia. Possiamo ammettere che
la depravazione è impossibile da sconfiggere, ma
nonostante questo continuare a lottare per la
dignità. Possiamo essere consapevoli che ci sarà
la guerra, e nonostante questo continuare a
lottare per la pace. Possiamo farlo, perché
questa è la storia del progresso umano, questa è
la speranza di tutto il mondo; e in questo
momento di sfide dev'essere il nostro compito,
qui sulla Terra.