Gli Svizzeri si sono espressi ed
hanno dichiarato di non volere i
minareti delle moschee musulmane sul
loro territorio. La decisione è
stata snobbata da molti come frutto
di “paura” e con superficiale
sarcasmo lo svedese Carl Bildt,
presidente di turno dell’Unione
europea, ha detto che ''Normalmente,
la Svezia e gli altri Paesi si
avvalgono di urbanisti per prendere
tali decisioni'', senza pensare che
proprio perché in Europa si
considera solo un fatto estetico la
presenza dell’Islam nascono poi le
posizioni di rifiuto come quella
svizzera. Uguale sarcasmo di segno
opposto è stato quello del leghista
Calderoli, che ha proposto di
inserire la croce nella bandiera
italiana. Siamo già arrivati al “Ich
bin Schweitzer”? Siamo tutti
svizzeri? Non avevano tutti i torti
i vescovi della Svizzera a ritenere
che il referendum avrebbe innescato
sciocche semplificazioni, però
questi timori non erano un buon
motivo per auspicare che il
referendum non si tenesse né per
demonizzare ora il suo risultato.
Che va, invece, capito.
I livelli della questione sono due.
E sono livelli diversi anche se
interconnessi. Da un punto di vista
religioso si può capire che si tenda
alla concordia in quanto si deve
amare tutti, anche i Muezzin che per
cinque volte al giorno ricordano ai
loro fedeli dall’alto di un minareto
che Allah è Grande e Maometto è il
suo Profeta. Amarli anche se lo
fanno sullo sfondo del lago di
Neuchatel e delle Alpi svizzere. Si
può discutere che sia corretto che
la Chiesa cattolica doni ai
musulmani il terreno per costruire
le moschee anziché darlo, per
esempio, ai poveri, oppure che la
concordia sia un fine da perseguire
sempre e comunque anteponendola
anche alla evangelizzazione, però si
può capire che il precetto
dell’amore del prossimo finisca per
prevalere se ci manteniamo sul piano
religioso. Anche con il sacrificio
di sé. Dal punto di vista religioso,
come da sempre dicono per esempio i
vescovi tedeschi, la reciprocità non
vale.
Ma poi c’è il piano politico. Qui
non ci sono dubbi che la migrazione
deve essere governata, specialmente
quella dei musulmani, per evidenti
motivi, primo fra tutti una diffusa
visione dei rapporti tra religione e
politica estranea a quella
occidentale dello Stato di diritto.
Tra i principali criteri di questo
governo delle migrazioni, anche nei
loro risvolti religiosi, c’è il
diritto a non essere invasi e a
vedere garantita la continuità della
propria cultura, della quale la
religione è parte genetica ed
integrante, come ecologia sociale in
cui crescere. Quando queste
condizioni non vengono garantite
dalla politica, ecco che accadono le
erezioni dei muri da parte della
popolazione, come è avvenuto a
seguito di questo referendum. Le
previsioni davano i referendari per
sconfitti, il risultato ha ribaltato
i pronostici. Tutti irrazionalmente
paurosi gli svizzeri? Tutti
xenofobi? Tutti cristiani
tradizionalisti? Il problema è
piuttosto un altro: pur con il voto
di frange socialmente e
politicamente estremiste, il popolo
svizzero ha detto che senza identità
non si può vivere. E lo ha dovuto
dire in questo modo perché,
evidentemente, la politica ordinaria
non se ne è fatta sufficientemente
carico. La politica deve
interessarsi del bene comune e il
bene comune non è solo materiale, ma
riguarda anche la qualità della vita
comunitaria, che non può esser
sciolta in qualunquismo.
E’ evidente che il minareto ha
assunto agli occhi degli svizzeri un
significato simbolico molto forte:
rappresenta non una presenza
composta e discreta di una religione
diversa ma aperta, ma una sfida. Non
è solo espressione della libertà di
religione, ma rappresenta una
provocazione anche politica. E’
stato percepito come qualcosa di
analogo alla preghiera davanti al
Duomo di Milano (dopo di che una
legge ad hoc ha vietato simili
manifestazioni davanti ai luoghi
sacri cattolici, e senza
referendum), come un demarcare il
proprio territorio, una necessità di
evidenziare e di dare corpo sociale
e politico ad una presenza. I
minareti sono stati visti come dei
“fari” (ed infatti la parola vuol
dire proprio questo) che demarcano
un territorio e che ne indicano fin
da lontano le caratteristiche
religiose e culturali. Lo svizzero
lo ha interpretato come cambiare il
nome della targhetta sulla porta del
suo appartamento.
La società europea – e non solo
quella svizzera - non può
considerare tutto ciò solo con il
criterio della generica categoria
del diritto alla libertà religiosa e
le osservazioni critiche al
referendum svizzero denunciano un
pensiero unico e di maniera
disarmante. Anche il diritto alla
libertà religiosa non è un diritto
assoluto, come non lo è qualsiasi
diritto soggettivo. Come lo svedese
Bildt derubrica la questione a
problema urbanistico, così si viene
a sapere che il primo minareto
svizzero è stato fatto costruire
dall’industriale del cioccolato
Philippe Suchard per uguali motivi
estetici: egli era infatti
appassionato di architettura
orientale. Ma all’estetica
postmoderna europea l’Islam
contrappone ben altro. Non basta
l’estetica, ci vuole la politica.
Quando manca la politica nascono i
referendum i quali hanno certamente
il demerito della semplificazione ma
anche il merito della chiarezza –
sì, no.
***
lochagos
03/12/09 10:58