di Vittorio
Messori - Corriere 30/11/2009
La croce bianca in campo rosso della bandiera (quadrata, come
quella vaticana, non rettangolare) sventola ovunque, in
Svizzera.
È un land-mark onnipresente, è l’irrinunciabile
segno d’identità dei 26 stati, suddivisi in 23 cantoni, dove
quattro sono le lingue ufficiali, dove i cattolici convivono con
i protestanti di molte chiese e confessioni e dove difformi al
massimo sono le tradizioni.
La convivenza non è stata sempre idilliaca e ancora a metà
dell’Ottocento «papisti», calvinisti, zwingliani, luterani si
affrontarono duramente in armi. Cose gravi ma, comunque, cose
tra cristiani che pregano lo stesso Dio e leggono la stessa
Bibbia. Preti contro pastori: una guerra, ma in famiglia.
Così, la croce della bandiera ha potuto continuare a
rappresentare la totalità di quella che - per aggirare la
diversità linguistica - sui francobolli e sulla moneta si
autodefinisce in latino: Confederatio helvetica. E i
campanili delle chiese cattoliche come quelli dei templi
protestanti hanno sempre contrassegnato gli scenari urbani come
i romantici paesaggi montani .
Anche per questo è significativo l’esito del referendum
indetto non tanto contro i luoghi di culto islamici quanto
contro il manarah, il «faro» in arabo, il minareto che
contrassegna gli spazi della preghiera musulmana.
Copiato dai cristiani, sostituendo alla cella campanaria il
balconcino per il muezzin che cinque volte al giorno salmodia il
Corano invitando alla preghiera, il minareto è parte
imprescindibile della moschea. È il segno dell’islamizzazione:
quando i turchi catturarono la preda più ambita, la veneranda
Santa Sofia di Costantinopoli, la fecero subito «loro» lasciando
quasi intatti gli interni, cancellando solo dalle pareti e dalle
cupole le aborrite immagini umane, ma circondandola di quattro,
altissimi «fari».
È proprio contro questo segno che sembra avere votato la
Confederazione elvetica, con disappunto delle gerarchie
cristiane. Questa sorta di compendio, di sintesi della storia e
della cultura europea, piantata nel cuore del Continente, dove
fa convivere le due grandi radici, la latinità e il germanesimo,
ha detto no. No alla convivenza esplicita, avvertibile già a
colpo d’occhio, della croce con la mezzaluna, del campanile con
il minareto. Le bianche montagne, le verdi vallate, i laghi
azzurri non hanno nulla a che fare con i deserti e le steppe da
cui spuntarono i maomettani, tante volte contenuti a suon di
spada (e le milizie elvetiche fecero la loro parte) e che ora
muovono silenziosamente ma implacabilmente a una nuova
conquista, varcando le frontiere spesso in modo abusivo.
La Svizzera non fa che confermare il «complesso
dell’assedio» che sempre più va diffondendosi in Europa.
Qualcosa come l’allarme dei «barbari alle porte» che
contrassegnò gli ultimi secoli dell’Impero romano.
Può esserci del positivo, malgrado le rampogne dei vescovi:
innanzitutto, la riscoperta della nostra civiltà e cultura,
abbandonando quell’«inspiegabile odio di sé che caratterizza da
tempo l’Occidente», per usare le parole di Joseph Ratzinger
quando ancora era cardinale e ricordava agli europei che nella
loro storia le luci, malgrado tutto, prevalgono sulle ombre.
Ma c’è anche, in questo allarme, qualcosa di irragionevole:
non è realistico, in effetti, pensare che, diluito tra noi,
l’Islam resti se stesso. L’osservanza del Corano, non ci
stanchiamo di ripeterlo, è già corrosa e sempre più lo sarà dai
nostri vizi e dalle nostre virtù, dai nostri veleni e dalle
nostre grandezze. Non occorrerà una nuova Lepanto: basterà la
nostra quotidianità, nel bene e nel male, per togliere vigore a
una fede arcaica, legalista, incapace di affrontare le sfide non
solo dell’edonismo e del razionalismo ma anche, va detto, dei
venti secoli di cristianesimo che hanno permeato l’Europa.