Vinceranno i guelfi o vinceranno i ghibellini, nella partita che ha per
oggetto l’approvazione di una legge sulla fine della vita umana? Se
impostiamo così la questione, come sempre più di frequente sembra che
avvenga, una cosa sola è certa: chiunque vinca, sarà la bioetica a
perdere, perché le ripugna ridurre nei confini soffocanti dell’ideologia
questioni come l’autodeterminazione, l’accanimento, l’abbandono
terapeutico, il destino della medicina nell’età della tecnica. Spiace
perciò dover prendere atto dell’acredine e perfino dell’aggressività con
cui molti laicisti (ma non tutti!) cercano di riportare il dibattito
sorto a seguito della vicenda Englaro alla stanca, esasperante e
infondata conflittualità tra cattolici e laici. È indubbio che i temi
legati alle questioni giuridiche sulla fine della vita umana sono di
quelli che dividono: non dividono però per ragioni confessionali, ma per
la diversa valutazione della configurazione etica che vengono ad
assumere nel mondo d’oggi le trionfanti tecniche biomediche.
Questo è il cuore del problema ed è un problema strettamente bioetico e non religioso, come dimostra il fatto che in bioetica ogni riferimento alla Scrittura, ai dogmi, ai Concili, al magistero della Chiesa viene sempre dopo un buon uso della comune e condivisa ragione morale. E valga il vero. Non è perché sia ripugnante alterare il progetto di Dio sulle sue creature che si deve dire di no all’eugenetica, ma per la rischiosissima alterazione dell’eguaglianza alla nascita tra gli uomini che essa porta inevitabilmente con sé.
Questo è il cuore del problema ed è un problema strettamente bioetico e non religioso, come dimostra il fatto che in bioetica ogni riferimento alla Scrittura, ai dogmi, ai Concili, al magistero della Chiesa viene sempre dopo un buon uso della comune e condivisa ragione morale. E valga il vero. Non è perché sia ripugnante alterare il progetto di Dio sulle sue creature che si deve dire di no all’eugenetica, ma per la rischiosissima alterazione dell’eguaglianza alla nascita tra gli uomini che essa porta inevitabilmente con sé.
Non perché sia sacra a Dio, non per compiacere i credenti, la vita
va difesa nelle moderne democrazie, ma perché è indispensabile limitare
il potere biopolitico dello Stato. Non perché si voglia difendere col
codice penale il proprio credo religioso (questa è l’affermazione, quasi
offensiva, che fa Nadia Urbinati su 'Repubblica' del 2 marzo -
vedi avanti) che si deve dire di
no a qualsiasi forma, esplicita o implicita, di eutanasia, ma perché
questo "no" sta alla base della plurisecolare, laicissima medicina
ippocratica e del principio di garanzia che la sostiene.
La laicità non consiste nel ridurre lo Stato a mero e freddo garante formale della coesistenza sociale, ma nel riconoscergli tra le tante funzioni quella preminente di garantire un’etica pubblica oggettiva e condivisa, che ha la sua sostanza in un fermo "sì" alla tutela dei diritti umani e in un "no", altrettanto fermo, alla pena di morte, al commercio di organi, alle mutilazioni sessuali, a qualsiasi manipolazione non terapeutica del corpo umano, anche se liberamente volute da persone adulte, informate e consenzienti, pienamente in grado di autodeterminarsi.
La laicità non consiste nel ridurre lo Stato a mero e freddo garante formale della coesistenza sociale, ma nel riconoscergli tra le tante funzioni quella preminente di garantire un’etica pubblica oggettiva e condivisa, che ha la sua sostanza in un fermo "sì" alla tutela dei diritti umani e in un "no", altrettanto fermo, alla pena di morte, al commercio di organi, alle mutilazioni sessuali, a qualsiasi manipolazione non terapeutica del corpo umano, anche se liberamente volute da persone adulte, informate e consenzienti, pienamente in grado di autodeterminarsi.
In questo senso deve muoversi una buona legge sul fine vita. Tutti,
cattolici e laici, devono battersi perché in essa non vengano a
confondersi la sfera del diritto e quella della religione (il "reato"
con il "peccato").
Ma tra le due sfere, che vanno tenute accuratamente separate, c’è quella della bioetica e questa sfera, investendo problemi di relazionalità sociale, non può essere messa tra parentesi o venir ridotta al formalismo del diritto, soprattutto da parte di uno Stato democratico.
Ma tra le due sfere, che vanno tenute accuratamente separate, c’è quella della bioetica e questa sfera, investendo problemi di relazionalità sociale, non può essere messa tra parentesi o venir ridotta al formalismo del diritto, soprattutto da parte di uno Stato democratico.
Ha ragione la Urbinati quando ripete (peraltro stancamente) che la
democrazia non può presumersi infallibile, né può pretendere di
possedere certezze assolute. È giustissimo che la democrazia sia portata
a dubitare costantemente di se stessa e sia sempre pronta a ritornare
sui suoi passi.
Se è doveroso dubitare sempre della fondatezza del nostro modo di
pensare il bene, non si è però legittimati a dubitare che il bene esista
e a rinunciare ad ogni impegno per realizzarlo. A meno di non volersi
riconoscere come nichilisti. Temo però che per molti laicisti le cose
stiano davvero così, anche se non vogliono ammetterlo esplicitamente.