Al di là di ogni implicazione d’ordine morale, che in una discussione di politica estera è bene tener da parte, questo ragionamento presenta due incredibili limiti: il primo concerne lo scenario complessivo nel quale il conflitto si viene oggi a porre; il secondo riguarda proprio l’analisi di quel rapporto tra componenti moderate e componenti radicali del mondo palestinese sul quale D’Alema incentra la sua tesi.
Non siamo più al tempo della
guerra fredda. L’azione
della componente
radical-terroristica del
mondo palestinese non
s’inserisce, dunque, nel
quadro di uno scenario
mondiale al cui vertice vi è
comunque la ricerca di un
equilibrio geo-politico. Al
contrario, essa è parte di
un contesto regionale nel
quale uno Stato
islamico-integralista,
l’Iran, attraverso la
costruzione della bomba
atomica, cerca di
conquistare un’egemonia su
tutto il mondo islamico.
Questa potenza,
dichiaratamente anti-semita,
ha lo stesso obiettivo di
Hamas: distruggere Israele.
E, per questo, muove il
terrorismo palestinese come
il suo braccio armato non
consentendogli derive
moderate neppure di tipo
tattico. Il che aiuta a
comprendere perché Hamas,
anche di fronte alla
terribile pressione a cui è
sottoposta stia continuando
imperterrita a lanciare
missili e a puntare
sull’allargamento del
conflitto.
Quando D’Alema scrive che la
trattativa con Hamas bisogna
lasciarla fare a Sira ed
Egitto, fa un ragionamento
tutto politico e non tiene
conto del fatto che Israele
ora è in guerra proprio
perché lo stillicidio dei
missili di Hamas sulle sue
città non possa più
avvenire. Cosa che non
sarebbe certo garantita da
“contatti discreti in atto
da tempo da parte di
funzionari di diversi paesi
europei” o con l’intervento
di intermediari ambigui e
fondamentalmente ostili.
L’errore più grave che le presunte colombe compiono, poi, è dimenticare cosa abbia significato Gaza negli sviluppi recenti del conflitto israeliano-palestinese. A quanti parlano di Gaza come di un nuovo lager, va ricordato che quella striscia di sabbia che i coloni avevano trasformato e resa abitabile, è stata restituita unilateralmente ai palestinesi da Sharon nel 2005. Era il prezzo che Israele pagò alla dirigenza palestinese post-Arafat, scommettendo che quel gesto potesse rafforzare la prospettiva della pace. Non fu un prezzo da poco. Israele si venne a trovare sull’orlo della guerra civile e, per effettuare lo sgombero, dovette usare la forza contro i suoi stessi cittadini. Il partito di Sharon subì una scissione e, con essa, corse il rischio di perdere la guida del governo.
Dopo meno di quattro anni, quel lembo di terra, nella cui rinuncia erano racchiuse le speranze di pace di un popolo offeso come nessun altro dalla storia, si è trasformato in una base missilistica contro Israele e in un gigantesco slum senza legge e senza futuro contro i palestinesi che lo abitano. Quello che doveva diventare un simbolo di riconciliazione con il fronte moderato di Abu Mazen e divenuto la ribalta militare e mediatica dei terroristi di Hamas.
Qui sta il vero punto politico di dissenso con D’Alema, ancora più profondo della convinzione che con forze di natura terroristica sia impossibile trattare. Il problema è proprio l’opposto di quello che l’ex ministro degli Esteri delinea nella sua lettera: non tanto cioè evitare rischio che la prosecuzione della guerra indebolisca i moderati quanto invece evitare che una tregua prematura rafforzi Hamas e la mostri al vittoriosa all’ammirazione dell’intero mondo arabo e in questo modo sì, produca la definitiva delegittimazione della classe dirigente moderata palestinese e di Abu Mazen.
Anche noi vogliamo la pace al più presto. Per questo non transigiamo sul fatto che dopo questo conflitto il rapporto tra Israele e la Palestina ritorni nel solco che Sharon e Abu Mazen scavarono quando Gaza fu restituita, senza deviazioni di carattere terroristico né influenze di potenze che dichiarano apertamente di voler riprodurre la più grande tragedia che la storia abbia mai concepito. La distruzione finale e definitiva del popolo ebraico.
Chi è dalla parte d’Israele e ne comprende la specificità storica e politica non può distinguere tra un’Israele buona e un’altra cattiva. E’ con i suoi intellettuali ma anche, e soprattutto, con il suo governo. E’ con lei quando governa la destra e quando governano i laburisti. E’ con lei nella buona così come nella cattiva sorte.
Per queste ragioni, se ci sarà un Israele Day, io ci sarò.