Carlo Panella - Occidentale 17 Marzo 2008
La vera
notizia straordinaria delle elezioni
iraniane è che qualcuno in Occidente,
incluso Massimo D’Alema, le prende sul
serio. Il problema è che si può capire
come D’Alema, abituato da giovane a
rendere omaggio alla democrazia
socialista e ai suoi riti tedesco
orientali, le consideri uno specchio
della società iraniana. Meno
comprensibili sono coloro che in America
- i Democratici nel loro complesso - e
in Europa hanno guardato a Teheran per
spiare una riscossa dei riformisti di
Khatami o, peggio ancora, per
individuare nell’affermazione di Ali
Larijani, il segno di un’apertura del
regime al dialogo con l’Occidente.
Pure, i
fatti sono lì, impietosi nella loro
crudezza: queste elezioni sono state
truccate, come tutte le elezioni in Iran
dal 1979 in poi, i ‘riformisti’ hanno
avuto 50 seggi e i ‘fondamentalisti’
240. Tra questi ultimi non c’è stata
nessuna spaccatura per la solida ragione
che hanno la stessa strategia e che si
differenziano solo nella tattica, tanto
che i due partiti, il ‘Fronte
Fondamentalista’ di Ahmadinejad e la
‘Coalizione Fondamentalista’ di Larijani,
hanno in comune ben 200 candidati, tutti
regolarmente eletti (si smarcano solo in
qualche decina di seggi).
E’ anche
impietosa la storia politica di Larijani
che la stampa politically correct
del mondo ci presenta come l’alternativa
dialogante a Ahmadinejad. Là dove
Rafsanjani - altro campione ‘riformista’
dei giornalisti occidentali - ha le mani
letteralmente intrise di sangue,
Larijani è stato per un decennio - dal
1994 in poi - letteralmente una sorta di
Savonarola alla guida della televisione
iraniana e del ministero della Cultura.
Ha epurato tutte le trasmissioni
televisive mettendole in chador, ha
normalizzato a suon di galera giornali e
giornalisti, ha addirittura operato una
massiccia censura preventiva nel mondo
editoriale iraniano per impedire che
venissero tradotti testi “inopportuni”.
Insomma,
nonostante le illusioni dei Democratici
di qua e di là dell’Oceano, queste
elezioni iraniane confermano, purtroppo,
che non si è aperta nessuna dialettica
dentro il regime tra un’ala oltranzista
e una quantomeno “dialogante” con
l’Occidente. Anzi, proprio la fusione
tra i candidati delle due liste non a
caso autodenominatesi fondamentaliste,
dimostra che i due pseudo contendenti,
Larijani e Ahmadinejad, in realtà altro
non sono che speaker del vero centro
politico - roccioso e per nulla in crisi
- del fondamentalismo iraniano: la guida
della rivoluzione Ali Khamenei e il suo
gruppo di comando.
Semmai, da
questo voto è emersa per la prima volta
la vera scelta operata da più di otto
anni dal gruppo di ayatollah che detiene
il potere reale in Iran e che è
capeggiato da Khamenei: l’inedita
alleanza, quasi ‘alla pari’ col blocco
militare dei Pasdaran. Non è una
alleanza inaspettata e risponde ad una
logica ben diversa da quella di tutti
gli altri paesi del mondo. I Pasdaran,
infatti, non sono dei militari: sono dei
rivoluzionari, esattamente come lo sono
gli ayatollah di Khamenei. Le due
componenti alleate, esprimono la
naturale tendenza espansiva - l’una sul
piano ideologico, l’altra sul piano
pratico - della enorme forza propulsiva
della rivoluzione più di massa e corale
che si sia mai verificata nel corso di
tutto il Novecento.
Una forza
espansiva che oggi si nutre del petrolio
a 110 dollari al barile e che quindi può
bellamente ignorare i fallimenti
economici di Ahmadinejad (occasione per
barbose, ma fallimentari, previsioni
sociologiche di ‘rottura del blocco
sociale rivoluzionario’ da parte di
tanti intellettuali occidentali),
continuare a distribuire reddito,
investire capitali ingenti
nell’armamento nucleare e missilistico,
stringere forti alleanze petrolifere e
diplomatiche con Chavez e Castro e così
garantire una formidabile copertura
statuale al puro processo di
allargamento della presa rivoluzionaria
consolidato sia in Libano che a Gaza
(oltre che a garantire alla povera Siria
e al suo spietato regime una
sopravvivenza economica e militare
altrimenti impossibile).
Per la
prima volta, dopo che l’ex pasdaran
Ahmadinejad è diventato presidente della
Repubblica, un ex comandante in capo dei
pasdaran, il generale Mhosen Rezai si
appresta a divenire una figura centrale
nel prossimo parlamento iraniano.
Saldamente alleati agli ayatollah
oltranzisti, presenti con non meno di 4
ministri in dicasteri chiave, i Pasdaran
avranno d’ora in poi un ruolo
fondamentale nella regia dei lavori
parlamentari.
Il generale Ali Jaafari, attuale comandante dei Pasdaran, può dirsi soddisfatto del lavoro compiuto e potrà anche sorridere nel leggere tutte le inutili disquisizioni che la grande stampa occidentale sta inventandosi tra Ahmadinejad, Larijani, il sindaco di Teheran Qalibaf e Rafsanjani. I quattro, infatti, non sono la rappresentazione del potere, ma rappresentano solo quattro diverse strategie di comunicazione di una unica linea strategica, incarnata da Khamenei. Sono quattro speaker, con ruolo amministrativo, non quattro leader.
Non è escluso che alla prossima tornata elettorale, quando si tratterà di eleggere il presidente della repubblica - che ha appunto solo poteri di speaker e qualche attribuzione amministrativa - Khamenei, Rezai e Jaafari (assieme agli ayatollah fondamentalisti alla Mezbah Yazdi), decideranno di abbandonare il volgare e violento Ahmadinejad e di fare vincere il più raffinato e affabulante Qalibaf (oggi sindaco di Teheran). Ma non cambierà nulla, almeno fino a quando la espansione della rivoluzione iraniana non troverà il suo secondo, decisivo, ostacolo. Otto anni di guerra sanguinosa con Saddam Hussein sono stati il primo ostacolo al suo contagio, oggi sono alle spalle e non si vede chi e dove possa costruire la prossima diga. A parte, naturalmente, Israele.