Stefano Magni - Occidentale 20 Febbraio 2008
Cosa
accadrà dopo le dimissioni di Fidel
Castro? La transizione alla democrazia,
probabilmente, è “inevitabile”, come
sostiene il candidato repubblicano
statunitense John McCain. Ipotesi
plausibile, visto che Raul Castro, il
fratello di Fidel, è molto anziano e nel
partito al potere non è emersa alcuna
personalità in grado di reggere una
successione. Castro aveva concentrato
tutta la legittimità del suo regime
sulla sua figura, è difficile pensare a
un partito al potere senza il “Lider
Maximo”.
Chi
non crede nel ritorno alla democrazia a
Cuba può benissimo indicare alcuni
fattori negativi: non c’è alcun
movimento di resistenza e dissidenza
compatto e organizzato che possa
prendere il potere. Gli esuli stessi
sono politicamente divisi. La
frustrazione della popolazione è
crescente, ma tutte le forze armate e di
sicurezza sono saldamente nelle mani del
regime. Insomma, non si possono fare
previsioni sul futuro di Cuba
post-castrista. In compenso si può fare
benissimo un bilancio di 49 anni di
potere assoluto di Fidel Castro.
Il
“Lider Maximo”, prima di tutto è
responsabile dell’instaurazione della
dittatura comunista. Emerse come il
leader della rivoluzione democratica
contro il dittatore populista (di
sinistra) Fulgencio Batista. La
rivoluzione del 1959 venne vissuta dalla
maggioranza dei suoi promotori come una
lotta per il ritorno alla democrazia.
“Quando ero studente di legge
all’Università dell’Avana iniziai da
subito a manifestare il mio dissenso
contro la dittatura di Batista. Noi
tutti eravamo contro la dittatura, non
avremmo mai pensato di aiutare
l’instaurazione di un nuovo regime
dittatoriale” – ci spiega Angel Cuadra,
poeta della rivoluzione e poi dissidente
anti-castrista, internato per quindici
anni nel gulag cubano – “Volevamo
ripristinare la Costituzione del 1940
che era stata sospesa da Batista e
ritornare a votare. Quando Castro prese
il potere, instaurò da subito un nuovo
assolutismo. Noi dissidenti, che lo
avevamo sostenuto, iniziammo a
considerarlo come un traditore”. Castro
non fu affatto costretto dalle
circostanze (e dagli Americani) a
sopprimere la democrazia e ad erigere
uno Stato totalitario.
A dire
il vero, Castro non era, tra i membri
della nuova classe dirigente, il più
totalitario. Il più ortodosso
filo-sovietico era proprio il mitizzato
Che Guevara. Anche prima della vittoria,
Guevara scriveva “Appartengo a coloro
che credono che la soluzione dei
problemi di questo mondo si trovi dietro
la cortina di ferro”: idee chiare su
come seguire il modello totalitario di
Stalin. Nei mesi successivi alla
vittoria del gennaio 1959, contribuì
attivamente alla fucilazione di 600
persone tra i membri dell’opposizione.
Nominato ministro dell’industria (seppur
privo delle basilari nozioni di
economia) ricalcò per Cuba il modello
sovietico, con la centralizzazione nelle
mani dello Stato di tutti i mezzi di
produzione, iniziò una vasta opera di
irreggimentazione della gioventù e creò
a Guanaha il primo campo di
concentramento per prigionieri
politici. Nel frattempo si costituivano
da subito dei tribunali speciali in cui
non esisteva diritto alla difesa. In
giugno Castro sospese le elezioni e alle
opposizioni, arrogantemente, rispose:
“Elezioni? A che servono?”. Subito dopo
sospese la costituzione del 1940 (che
garantiva i diritti fondamentali) e
governò in modo assolutistico.
I
comunisti non erano affatto egemonici
nel fronte rivoluzionario. Contro
Batista era attivissima la Chiesa locale
guidata dall’arcivescovo Serantes.
Questi aveva condannato la non
democraticità di Batista, gli atti di
violenza delle milizie di destra “Tigri”
e aveva perfino permesso la partenza di
molti sacerdoti per la Sierra, dove si
organizzava la guerriglia
anti-batistiana. Dopo la vittoria di
Castro la Chiesa si è opposta alla dura
repressione delle formazioni non
comuniste e il dittatore ha invitato
tutti i sacerdoti ad andarsene.
Il
capo dei sindacati dello zucchero, David
Salvador, aveva guidato i maggiori
scioperi contro Batista, ma, democratico
convinto, non aveva accettato che nel
‘59 i vertici del sindacato venissero
nominati dal regime saltando le
elezioni: è stato arrestato e subito
dopo il suo sindacato, fuso per ordine
di Castro con tutti gli altri, si
troverà costretto a sopprimere il
diritto di sciopero. “Il sindacato non è
un organo rivendicativo” (Castro).
Uno
dei leader dell’opposizione, Humberto
Sorì Marin, era un liberale radicale e,
nominato ministro dell’agricoltura,
progettò la redistribuzione dei
latifondi ai piccoli proprietari: Castro
non approvò il suo piano e fece occupare
le terre dall’esercito, sopprimendo con
la forza ogni tentativo di resistenza
contadina alla nazionalizzazione totale
delle campagne. Matos, conquistatore di
Santiago ed eroe della guerriglia sulla
Sierra, si oppose alla nazionalizzazione
forzata delle campagne: fu arrestato e
giudicato con un processo senza difesa
in cui il verdetto finale fu
condizionato personalmente da Castro.
Dopo
la nazionalizzazione delle campagne,
gran parte dei gruppi di guerriglia
urbana anti-batistiani si rifugiarono
nuovamente sulla Sierra per combattere
il nuovo dittatore. Il mitologico Che e
Raul Castro scatenarono contro di loro
una repressione così feroce da battere,
in numero di vittime e di atrocità,
decenni di regime di Batista: le
famiglie dei contadini ribelli furono
deportate in massa dall’altra parte
dell’isola (lo stesso Guevara
organizzerà a Guanaha i primi campi di
“rieducazione” organizzati sul modello
dei gulag sovietici). Uno dei leader
della rivolta anti-castrista, Carrera,
che era anche uno dei protagonisti della
rivoluzione del ’59, fu ucciso
personalmente da Guevara, suo rivale
personale. A Santa Clara furono fucilati
senza processo 381 “banditi” in un solo
giorno. Nella prigione di Lloma de
Coches le vittime furono più di 1000 in
pochi giorni. Il capo dell’opposizione
studentesca a Batista, Luis Boitel, poi
unitosi alla rivolta anti-castrista, fu
rinchiuso nel carcere duro a Boniato:
morì in seguito a 53 giorni di sciopero
della fame dichiarando “faccio lo
sciopero per ottenere i diritti
riservati ai prigionieri politici;
quegli stessi diritti che voi chiedete
per gli altri Paesi dell’America Latina
e negate al vostro”.
Nella
metà degli anni ‘60 i comunisti
egemonizzavano in modo assoluto il
fronte rivoluzionario: gli altri partiti
erano stati smantellati. Già dal primo
anno era stata costituita un’efficiente
polizia segreta, la DSE, guidata da
Ramiro Valdes. Era (anzi è, perché
esiste tuttora) divisa in tante sezioni
quante sono quelle della società cubana:
le prime due controllano personalmente
ogni membro dell’amministrazione
pubblica, la III controlla il mondo
dell’arte e dello sport (gli scrittori
rivoluzionari Padilla e Arenas sono le
vittime più illustri), la IV controlla
tutti i settori dell’economia, la V i
trasporti e le comunicazioni non
telefoniche (ogni lettera spedita è
passibile di controllo), la VI (la più
numerosa, con più di 1000 agenti) si
occupa delle intercettazioni delle
telefonate di ogni cittadino
cubano, la VII controlla ogni membro
del corpo diplomatico e l’VIII assicura
di guidare bene i turisti: i nostri
intellettuali di sinistra che vanno in
vacanza a Cuba devono veramente vedere
che questa sia un paradiso.
Non
basta: un altro organismo, il DEM,
organizza migliaia di informatori e
delatori sparsi segretamente tra la
popolazione civile, l’esercito e la
stessa polizia segreta. La Dirrecion 5
del DEM, è specializzata
nell’eliminazione fisica degli avversari
politici indicati da Castro in persona.
Nei campi di “rieducazione” (il primo
dei quali, lo voglio ricordare, è stato
organizzato personalmente da Che
Guevara) gli UMAP, sono stati
sistematicamente rinchiusi cattolici,
protestanti, testimoni di Geova,
omosessuali e tutti i “potenzialmente
pericolosi per la società”. Questo
sorvolando sul trattamento carcerario:
celle di 30 metri quadrati per 42
prigionieri, sfruttamento delle fobie
dei detenuti, scarpe zavorrate col
piombo, uso del pentothal e altre droghe
per tenere svegli i prigionieri, uso
dell’elettroshock, finte esecuzioni,
ecc...
Tutti
questi sacrifici, almeno, sono serviti a
fare di Cuba (che sotto la dittatura di
Batista era uno dei paesi più benestanti
dell’America Latina) un paese in cui la
popolazione vive meglio? Evidentemente
no, perché i risultati economici sono
miseri. Il benessere, obiettivo
principale del regime socialista di
Castro, non è garantito: il Pil
pro-capite è di 4500 dollari. Un’inezia
rispetto ai 31.000 dollari dell’Italia.
Meno dell’Albania (5500 dollari), giusto
per fare un esempio di confronto con un
paese povero europeo. E meno di un terzo
rispetto al Pil pro-capite dei
democratici Cile e Argentina
(rispettivamente 14.500 e 13.000
dollari) e poco più della metà della
Colombia, pur flagellata dal terrorismo
(7500 dollari).
I
difensori ad oltranza del sistema cubano
salvano almeno la sanità. Ma
un’inchiesta indipendente condotta dal
professor Julian Antonio Mone Borrego
nel marzo scorso, svela una realtà ben
diversa da quella spacciata dalla
propaganda: nell’ospedale di Santa
Clara, un’invasione di scarafaggi, ha
contaminato tutto, dal cibo al materiale
medico; a Ciego de Havila, la mancanza
di equipaggiamento e medicinali di prima
necessità ha costretto gli ospedali
locali “Antonio Luaces Iraola” e
“Roberto Rodriguez” alla sospensione di
tutte le operazioni chirurgiche. A
Camaguey, tutti gli ospedali locali
registrano carenze di materiale di base
per i test di laboratorio. A Holguin,
continui blackout hanno costretto il
personale medico a ricorrere alle
lampade a petrolio per illuminare i
locali. Persino nella capitale, nel
gennaio scorso, un paziente malato di
Aids, e ricoverato in un sanatorio
specializzato, lamentava condizioni
igieniche impossibili: acqua contaminata
ed escrementi animali in tutti i locali.
A Cienfuegos, nelle farmacie, è mancata
l’aspirina per mesi. A questi episodi va
aggiunta una carenza cronica di
autoambulanze, tempi di attesa
lunghissimi per i pazienti e una
crescente frustrazione del personale
medico e paramedico, che si vede molto
spesso negare ogni richiesta da una
burocrazia lenta e corrotta.
Sarebbe sbagliato anche dare la colpa
all’embargo statunitense (iniziato 46
anni fa), come ripete sempre la
propaganda cubana e filo-cubana in tutto
il mondo. Perché fino al 1991, Cuba è
stata sostenuta economicamente
dall’Unione Sovietica. E dopo la
dissoluzione dell’Urss, il regime di
Castro ha stabilito nuovi contatti
commerciali con l’Europa, con i paesi ex
sovietici e, dal 1998, mantiene rapporti
commerciali privilegiati con il
Venezuela di Hugo Chavez, il maggior
produttore di petrolio di tutta
l’America Latina. Tuttora il Venezuela
vende il petrolio a Cuba a prezzi
politici, fuori mercato.
In compenso il regime di Castro ha primeggiato nell’esportazione di un prodotto speciale: la violenza politica. Decine di migliaia di consiglieri militari e soldati (più o meno) volontari sono andati a combattere in Angola, Mozambico, Etiopia e Nicaragua, per “esportare la rivoluzione”. Il regime castrista è sospettato di avere anche sostenuto segretamente la guerriglia comunista nel Salvador, la guerriglia delle Farc in Colombia, indirettamente anche il terrorismo dell’Eta in Spagna.
E’ ancora difficile calcolare i danni, la sofferenza, la miseria e i lutti provocati, a Cuba e nel resto del mondo, da questi 49 anni di potere assoluto di Fidel Castro. Tutta la verità potrà emergere solo quando cadrà del tutto il regime rivoluzionario instaurato nel 1959. Per ora limitiamoci a sperare che i suoi successori non siano “all’altezza” del padre della rivoluzione cubana.