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(15 marzo, 2007) Corriere della Sera |
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il Futuro dell' Iraq |
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C' è una via petrolifera alla
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La recente legge sugli idrocarburi,
approvata dal consiglio dei ministri iracheno, dopo non poche
discussioni, merita più elogi di quanti non ne abbia ricevuti
finora. Innanzitutto, abolisce la giustificazione economica della
dittatura in Iraq. Secondo, è stata varata grazie a un processo di
dibattiti e scambi che, seppur nella sua infanzia, dimostra la
possibilità di un futuro di questo Paese fondato sulla
collaborazione. Terzo, fa sfigurare la politica petrolifera dei
vicini dell' Iraq e rinforza l' idea che una democrazia a Bagdad
potrebbe insegnare non poche lezioni alla regione. Vorrei illustrare
questo provvedimento con qualche paragone. Si può immaginare che il
governo saudita riservi una parte delle entrate petrolifere ai
lavoratori sciiti, disprezzati ed emarginati, che sgobbano nei campi
petroliferi della regione occidentale del Paese? Si può immaginare
la dittatura sciita dell' Iran che assegni una percentuale di questo
reddito all' area del Khuzestan, di lingua araba, per non parlare
del 10% della popolazione iraniana composta da sunniti e da curdi?
La risposta è già nella domanda. Il controllo sulla produzione e la
distribuzione del petrolio è il fattore decisivo nella spartizione
del potere in Medio Oriente. La dittatura di Saddam Hussein, con le
famigerate stragi di sciiti e curdi, si spiega in parte con l'
ideologia baathista che subordinava tutto al capo dello Stato. Ma -
senza cercare di essere troppo marxisti su questo punto - direi che
era anche condizionata da un imperativo economico. La minoranza
sunnita, e specie la minoranza tikriti di quella minoranza, viveva
in zone del Paese dove i giacimenti di petrolio erano relativamente
scarsi. Per poter esercitare il controllo sulla più importante
risorsa del Paese, la dittatura era costretta ad agire quasi come
una potenza coloniale nelle province curde e sciite, con i risultati
che tutti conosciamo. Ma in Iraq, in realtà, c' è petrolio a
sufficienza per tutti. Nuovi e importanti giacimenti vengono
individuati in continuazione, gli ultimi nella provincia di Anbar,
dove le forze di al-Qaeda si sono attestate per condurre la loro
battaglia. Qui, come nel resto del Paese, il visitatore resta
allibito dalla miseria estrema e dalle sofferenze di un popolo che
vive in quello che dovrebbe essere uno dei Paesi più ricchi del
pianeta. Una città polverosa e disperata com' è oggi Bassora
potrebbe essere, nelle parole di un ministro il dicembre scorso a
Bagdad, «ricca come il Kuwait tra cinque anni». La nuova legge
propone un controllo federale sul petrolio e sul gas, e prevede la
distribuzione del reddito in proporzione alla popolazione di
ciascuna provincia. In altre parole: lo stesso elemento che ha
lubrificato gli armamenti della dittatura e dell' aggressione
potrebbe, con una buona dose di incoraggiamento, trasformarsi nella
base economica di una democrazia federale. Bisogna ammettere che
vale la pena tentare. A sinistra, e nel campo dei pacifisti, la
parola stessa «petrolio» viene considerata un' eresia, l' indizio
brechtiano che punta ai complotti segreti dei neoconservatori. Per
questo ho letto con interesse le parole di Christian Parenti, l'
arcinemico della politica di Bush in Iraq, che nell' edizione del 19
marzo di The Nation afferma: «sulle questioni chiave degli
investimenti stranieri e della decentralizzazione regionale nei suoi
rapporti con il controllo centrale, la legge è ancora vaga ma niente
affatto disprezzabile». Che cosa hanno da perdere gli iracheni? Non
è che il ritiro degli investimenti stranieri lascerebbe il petrolio
alla gestione del popolo. Ricordiamo che l' Iraq sotto Saddam aveva
già visto le forme più estreme di «privatizzazione», difatti tutto
il settore industriale era diventato feudo privato di una classe
politica parassita. Ricordiamo che nessun reale investimento era
stato fatto nei giacimenti petroliferi da oltre vent' anni, tanto
che quando gli esperti hanno visitato le raffinerie dopo il 2003,
non riuscirono a trovare (come mi è stato riferito) «nemmeno un
posto dove attaccare un cerotto». Ricordiamo che i baathisti
sfruttarono il programma «oil for food» per corrompere i funzionari
delle Nazioni Unite. Ricordiamo che Saddam Hussein fece incendiare i
giacimenti del Kuwait e ordinò di convogliare il greggio
direttamente nelle acque del Golfo per distruggere l' habitat
marino. Dopo tutto questo, persino la Halliburton deve apparire come
una mano amica. Ovviamente, tutto questo è ancora pesantemente
condizionato dalla minaccia quotidiana dei sabotaggi dei jihadisti,
dalla corruzione che regna in un ministero di natura settaria, e
dalle condizioni precarie delle infrastrutture. E il provvedimento
deve essere ancora approvato dal parlamento iracheno, un corpo
politico che trova ancora non poche difficoltà a riunirsi. Malgrado
tutto, è stato stabilito un principio che fa onore agli iracheni che
lo hanno firmato e alle forze della coalizione che lo hanno reso
possibile. Se non fosse per la sensazione corrente tra gli
americani, che il petrolio è una sostanza troppo sporca per essere
menzionata tra persone civili, questa considerazione potrebbe
persino influenzare il dibattito attuale sulla «strategia del
disimpegno». Vorrei sapere da coloro che appoggiano il ritiro dall'
Iraq, se sono felici di abbandonare il controllo di questa immensa
ricchezza a pretendenti più forti o più spregiudicati - al-Qaeda
nell' Anbar, i turchi nel Nord e i fanatici di Ahmadinejad nel Sud?
O non sarebbe meglio avere una democrazia federale, anche se
imperfetta, che si fondi non solo su ideali, ma su un solido
appoggio materiale? Un Paese che potrebbe, nel corso degli anni,
contrastare il potere oggi esercitato dall' Arabia Saudita e dall'
Iran? E' solo una domanda. E non serve a niente urlare «niente
sangue per il petrolio», perché il petrolio è la linfa vitale di
questo Paese, e tutti lo sanno e l' hanno sempre saputo. © 2007
Christopher Hitchens Distributed by New York Times Syndicate
Traduzione di Rita Baldassarre |
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Hitchens Christopher
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