DAL DARFUR (Sudan) - È un pick up Toyota,
senza finestrini né targa. È venuto a prendermi, mentre si fa notte,
a Bahai, l' ultima città del Ciad prima di entrare nel Darfur. Per
non mettere in imbarazzo gli operatori umanitari che mi ospitano, s'
è fermato un centinaio di metri più lontano. S' è fermato davanti a
una baracca polverosa che fa da posto di polizia. C' è Otman, l'
autista, giovanissimo. Quattro uomini armati, sulla piattaforma
posteriore, appollaiati su pacchi di pane e incappucciati in lunghi
turbanti incolori. E c' è un quinto uomo, il loro comandante, che
conosce qualche parola d' inglese e, senza preamboli, nell'
oscurità, mi tende il suo telefono satellitare Thuraya. C' è anche
un quinto uomo, Abdul Wahid Al Nur, il responsabile del Sudan
Liberation Army (Sla), con cui ero in contatto già da Parigi e che è
uno dei due eserciti ribelli ad aver rifiutato, un anno fa, gli
accordi di pace di Abuja. «Scusi il ritardo - comincia con voce resa
quasi impercettibile dall' eco della tempesta di sabbia che
imperversa fin dal mattino -. Ma i nostri telefoni sono sotto
controllo. Il corridoio che avevamo previsto per il suo passaggio è
stato interrotto ieri da una colonna di 4.000 janjaweed. Abbiamo
dovuto immaginarne un altro. Capisce?». Sì, capisco. Ma come mai i
janjaweed... Le terribili milizie a cavallo del regime islamico di
Khartoum vengono a seminare il terrore fin qui, a nord della
frontiera... A N' Djamena mi avevano detto che questa zona era già
passata nelle mani della guerriglia... È una prima informazione. La
capanna Una breve sosta prima di partire, vicino a una capanna di
paglia dove sono depositati barili di benzina che alcuni bambini, in
silenzio, caricano dietro al pick up. Un' altra sosta, poco più
lontano, sempre dalla parte del Ciad, in una baracca che dalla
pista, così piena di sabbia, è invisibile, dove prendiamo alcune
coperte. E via verso il Sudan, provincia del Darfur, procedendo a
gran velocità, spesso a fari spenti, in un deserto di sassi, di
rovi, di sabbia indurita dal gelo, di alberi morti che Otman evita
ogni volta sterzando all' ultimo momento. Fa freddo. Siamo
sballottati da tutte le parti. Facciamo a turno, con il fotografo
Alexis Duclos, per sederci davanti, vicino all' autista, da dove si
può prevedere meglio ogni sobbalzo. Dietro, gli uomini fumano o
sonnecchiano, con il kalashnikov fra le ginocchia. Ogni tanto, senza
ragioni apparenti, uno di loro s' irrigidisce e sta sul chi vive. Un
altro spara su un' antilope e viene coperto d' insulti perché ha
sprecato una cartuccia. Ben presto, quando la tempesta s' è calmata
e la luna torna a mostrarsi, distinguiamo le prime tracce di
villaggi incendiati che la terra ha cominciato ad assorbire. Cerchi
di fuliggine nera... Montagne di ramaglia e arbusti gettati sui
carnai come umili mausolei... Quella notte, saranno le uniche tracce
di presenza umana su questa terra desolata: come se, in questa zona
a nord del Darfur, la purificazione etnica, che è il nodo della
faccenda e che contrappone i cavalieri «arabi» alle tribù «nere»
Zagawha, Tunjur e Fur, stesse per attuarsi. Nel Darfur che scopro
non ci sono città. Non ci sono neanche check point, quel minimo di
segnali che servono a marcare uno spazio e a indicare più o meno
dove ci troviamo. Solo il deserto. Solo eserciti fantasma che si
sfiorano e si girano attorno. A cominciare dalla nostra unità che,
circa ogni mezz' ora, fa una sosta. Otman, allora, accende il suo
Thuraya. Sfila la piccola antenna e cerca il satellite come un
rabdomante cerca il pozzo. Segue una breve conversazione con
invisibili ricognitori. E secondo quello che gli dicono, se c' è o
meno la presenza di janjaweed o, nella zona di Jebel Mun, di
combattenti del Jem, il movimento di guerriglia rivale, riparte,
torna sui suoi passi, devia o anche, per due volte, si ferma. Allora
gli uomini scendono. Stendono una stuoia direttamente sul pietrisco.
E si addormentano lì, subito, arrotolati nelle coperte, in attesa
che una nuova chiamata annunci il passato pericolo. Viaggiamo così
per quattordici ore. L' equivalente di 400 chilometri. Ed è l'
indomani, verso mezzogiorno, che arriviamo ad Amarai dove ci
accoglie, circondato dai Saggi in abito bianco, un personaggio magro
ed elegante che indossa una giacca a vento blu su pantaloni
militari: il capo politico della zona, Mustafa Adam Ahmadai, detto
Rocco, il suo nome in codice all' epoca in cui, molto prima della
guerra, era ufficiale d' alto rango nei servizi segreti del Sudan.
Amarai è una zona liberata dove si sono riuniti i superstiti dei
massacri dei vicini villaggi. Lo scenario è sempre lo stesso e
conferma il racconto dei profughi che, con François Zimeray e la
missione francese Urgenza-Darfur, avevo interrogato i giorni
precedenti nei campi ciadiani di Goz Beida. I janjaweed, in genere,
arrivano all' alba. Gettano torce nelle capanne. Sfondano a colpi di
mazza le grandi giare di terracotta da cui fuoriescono fiumi di
miglio o di saggina a cui poi appiccano il fuoco. Girano intorno ai
roghi con urla terribili. Strappano i bambini dalle braccia delle
madri per gettarli vivi tra le fiamme. Violentano le donne, le
picchiano, le sventrano. Riuniscono gli uomini e li finiscono con i
mitra. Infine, quando tutto è bruciato, quando del villaggio non
restano che rovine sparse e fumanti, raggruppano gli animali
impauriti e li trascinano via verso il Sudan. I miei testimoni hanno
un nome. Sono Hadja Abdelaziz, trent' anni, sei figli, di cui tre
sono morti nell' attacco al villaggio di Khortial; Fatmah Mussa Nur,
28 anni, che ha perso il marito nel bombardamento, in ottobre, di
Beirmazza. Sono donne e uomini comuni i cui racconti si aggiungono a
quelli raccolti, negli ultimi quattro anni, dalle organizzazioni di
difesa dei diritti dell' uomo. Con tuttavia due varianti. Le orde La
prima variante è, innanzitutto, che le colonne infernali presentate
da Khartoum come orde di banditi che sfuggono a qualsiasi controllo,
e comunque al suo, sono ancora inquadrate da ufficiali dell'
esercito regolare sudanese. Mi dice Rocco che nel febbraio del 2004
c' erano sudanesi a Tawila, dove si contarono 67 morti, 93 donne
violentate e più di 5.000 esuli. C' erano sudanesi a Hashabba, poco
più in alto, dove non ci sono stati morti perché un battaglione
della Lsa è riuscito ad evacuare i civili in tempo. «Quanto a
Deissa... Venga. Andiamo a Deissa. Vedrà lei stesso con i suoi
occhi...». Deissa, quindici chilometri più a est, è un altro
villaggio appena incendiato dove ci rechiamo con tre pick up e dove
un superstite, con gli occhi dilatati dallo spavento mentre vaga,
insieme con noi, fra i resti carbonizzati di quella che fu la sua
casa, racconta come i janjaweed siano venuti due volte. Una volta
per far scoppiare i granai, incendiare le capanne e la moschea, per
uccidere. Una seconda volta, per distruggere la scuola, che era
costruita in muratura. «Ebbene, entrambe le volte - mormora - era un
capitano giunto da Khartoum a dirigere l' operazione... Gli
inquirenti della Corte internazionale possono venire, se lo
desiderano! Mostreremo loro l' evidenza!». L' immagine del
janjaweed, questo «cavaliere dell' apocalisse» di cui si è tanto
parlato, sarebbe forse un cliché troppo comodo? E a nascondersi
dietro al cliché sarebbe il Sudan integralista islamico e razzista?
La seconda variante è che questi cavalieri sembrano, a guardar bene,
più «meccanizzati» di quanto si dica. Prendiamo l' esempio di
Deissa: quando sono tornati la seconda volta, per la scuola, non è a
cavallo né a dorso di cammello che viaggiavano, ma su un veicolo da
trasporto truppe sul quale era montato un cannone che ha bombardato
le aule. O l' esempio di Khur-Syal, otto chilometri più a Ovest: l'
immenso cratere scavato, il 23 gennaio scorso, a dispetto dei
divieti di sorvolo decretati dalla comunità internazionale, dalla
bomba sganciata da un Antonov; siamo lontani dal janjaweed che
arriva a dorso di cammello. Oppure lì, sotto l' albero dove ci si
riunisce per discutere, ecco un camion verde oliva nella cui
carcassa gioca un gruppo di bambini e che una compagnia d' élite
della Sla ha preso con la forza il 18 gennaio, a metà strada da
Djebel Marra: «Guardi questo camion - mi dice Rocco - ne fotografi
bene la marca, Giad, e la targa, sudanese; è un camion uscito dritto
dritto da una fabbrica d' assemblaggio che il presidente Al-Bechir
ha inaugurato sette anni fa, vicino a Khartoum, insieme, fra gli
altri, con voi francesi». Ancora un altro mito, allora? Un altro
cliché oltre a quello di una guerra lunga ma rudimentale, di bassa
intensità, condotta da oscure tribù che regolano i conti di dispute
senza età? In ogni caso, ne sono testimone: l' armamentario, l'
armata, i grandi mezzi, l' odore della guerra calda e del crimine
contro l' umanità su grande scala. Non manca niente. Rocco, adesso,
è con i suoi comandanti e me li presenta uno ad uno, sotto un
tendone, a Beirmazza, sessanta chilometri a Nord di Amarai: Mohamed
Abdorahman, detto la Tigre per il suo ardimento e anche, mi dicono,
per la rapidità da felino con cui assicura il collegamento tra i
fronti; Nimeiry, l' intellettuale, con un turbante beige arrotolato
stretto attorno alla fronte, come gli afghani; e il gioviale Mohamed
Adam Abdusalam, chiamato Generale Tarada, letteralmente Generale
Squattrinato, perché, da civile, era considerato particolarmente
negato per gli affari mentre, in guerra, dimostra d' essere un
geniale stratega. Non è stato forse lui, nella zona di Kurma, dopo i
massacri dell' estate scorsa, che è riuscito, con trenta uomini, a
riconquistare Hillat Hashab e Dalil? Lui che, nella stessa zona,
qualche settimana fa, ha preso quattro veicoli a una colonna di
combattenti dell' Als (MM), l' esercito rivale di Mini Minawi,
firmatario degli accordi di pace di Abuja e vicino, quindi, a
Khartoum? E ancora lui che, già nel febbraio 2003, previde l'
attacco di El-Fasher, capitale del Darfur, che offrì il pretesto al
governo per scatenare la sua guerra totale? «Non si fidi della sua
aria da orsacchiotto - mi dice Rocco sorridendo -. Quello che le sto
dicendo è documentato. È il nostro comandante migliore. Al-Bechir
offrirebbe tutti i suoi beni in cambio della sua testa o per
demolirlo». Sempre nella zona di Beirmazza, ci troviamo in mezzo a
un campo circolare di pietre dove si allenano, sotto un sole
cocente, gli uomini di Rocco e Tarada. Mi colpisce quel misto di
estrema gravità (tutti quelli che ho interrogato mi dicono di
trovarsi lì perché hanno perduto una persona cara) e al tempo stesso
di buon umore e di entusiasmo (il loro modo di mettersi in posa, di
gonfiare il petto, spingersi con i gomiti per le foto). Ma anche, e
soprattutto, il lato disparato, trasandato e, in fondo,
perfettamente indifeso di questa truppa di straccioni dei quali
scopriamo, avvicinandoci, le labbra gonfie per la sete e lo sguardo
perso nel vuoto. Per il centinaio di combattenti presenti, conto
solo due mortai, tre lanciarazzi Rpg e fucili kalashnikov, ma non
per tutti. «Noi non abbiamo niente -, mi dice, come se leggesse nei
miei pensieri, l' imponente generale Tarada -. Nessuno ci aiuta e
quindi non abbiamo niente. Il Ciad? No, il presidente del Ciad,
Déby, ha ben troppa paura delle ritorsioni che i sudanesi
eserciterebbero attraverso gruppi ribelli infiltrati e dunque sta
molto attento. In verità, le armi che lei vede sono state prese
tutte al nemico. Tutte. Quanto ai nostri veicoli...». L' embargo Mi
mostra, con un gesto ampio e stranamente signorile, due Toyota
appena arrivati per consentire ai comandanti di ricaricare i loro
Thuraya nell' accendisigari, più una terza di cui si svuota il
serbatoio per riempire quello dell' auto che deve ripartire per il
Ciad. «I nostri veicoli, l' ha capito, vero? Sono tutti bottino di
guerra». Poi, abbassando la voce, in tono confidenziale, come si
apprestasse a confidarmi un terribile segreto militare: «Abbiamo
così poco carburante che siamo ridotti, quando andiamo a combattere,
a fare spingere le autoblindo dagli uomini fino al punto di contatto
con il nemico». Penso di nuovo ai bosniaci. All' embargo militare
che, all' epoca dell' assedio di Sarajevo, colpiva allo stesso modo,
in un' apparente ma iniqua simmetria, gli aggressori
superequipaggiati e gli aggrediti quasi disarmati. So bene che le
situazioni non sono paragonabili. E sono convinto che quei contadini
in armi, quegli uomini esaltati da un' implacabile collera e che
sbraitano, all' unisono, «lunga vita a Tarada»; quel capitano che
prima, quando gli ho chiesto come trattava i prigionieri, ha
farfugliato che non ne faceva gran cosa, non sono, nemmeno loro,
modelli di virtù. Ma una parte di me non può non fare, comunque, il
confronto. Una parte di me non può trattenersi da una sorda rivolta
di fronte allo squilibrio, così flagrante anche qui, fra gli
armamenti irrisori da un lato e, dall' altro, il cratere della bomba
di Khur-Syal, i barili pieni di benzina e di chiodi sganciati a
bassa altitudine dagli Antonov, i villaggi ridotti in cenere, gli
ossari. Ecco, questa parte di me non può evitare d' interrogarsi: se
siamo incapaci di fermare il massacro, se non abbiamo il potere né
soprattutto la volontà di punire il regime terroristico del Sudan,
se non osiamo nemmeno far pressione sulla Cina, la sua alleata al
Consiglio di Sicurezza, affinché essa accetti il principio dell'
invio di Caschi blu, non dovremmo, almeno, aiutare coloro che
difendono quella gente e che lo fanno con le armi in pugno? Infatti,
è inutile dire... I villaggi di Deissa e di Beirmazza che vivono
sotto la protezione della Sla... Il mercato di Bredik dove facciamo
provviste per il ritorno e che, con le sue stuoie colorate dove sono
esposti biscotti, cipolle, pomodori ha un' aria quasi pimpante... Il
minuscolo bazar, a Muzbad, dove ho trovato saponette made in
Libia... Il mercato dei cammelli, ad Anka, dove mi garantiscono che
nomadi arabi si fermano per pagare, come ai bei vecchi tempi, un
diritto di asilo e di passaggio... Oppure - è un dettaglio, ma un
dettaglio che la dice lunga! - il fatto che Rocco, a Bredik, paga
quel che compra invece, come tanti guerriglieri, di vivere sull'
animale... La zona libera di Amarai resta, naturalmente, una zona di
guerra. E non ho incontrato nessuno che non avesse, nello sguardo,
quella specie di paura prodigiosa che, in tutte le guerre, suscita
l' imminenza della morte. Ma è inevitabile constatare che la
presenza della Sla ha un effetto rassicurante. Per chi arriva dal
Ciad, per chi ha in mente la terribile immagine dei campi di
profughi e di fuorusciti di Goz Beida o di Djabal, per uno come me
che ha visto gli operatori umanitari dar prova di tanta ammirevole
energia per nutrire e curare popolazioni i cui magri tesori saranno
saccheggiati, alla prima occasione, dai janjaweed, il minimo che si
possa dire è che sì, il problema si pone: non sarebbe meglio, tutto
sommato, stabilire le popolazioni là dove si trovano? A costo di
armare chi resta con loro? Il ritorno Sulla via del ritorno, ho un'
ultima conversazione, politica stavolta, con il comandante Nimeiry,
che conferma questa impressione. Sono le cinque del mattino. Abbiamo
viaggiato essenzialmente di notte. Ed ecco che a cinquanta
chilometri dalla frontiera, avendo scorto di fronte a noi bagliori
sospetti, Otman ha frenato di colpo, ha ruotato di 360 gradi e s' è
rimesso in marcia a gran velocità nell' altro senso, fermandosi poco
più lontano, nel letto asciutto di un fiume. «Qual è, in definitiva,
la sua soluzione per il Darfur?», gli chiedo dopo che gli uomini,
come al solito, hanno steso le loro stuoie e si sono addormentati.
«In ogni caso, non la secessione - mi risponde -. Non siamo per l'
indipendenza, ma per una formula di uguaglianza all' interno di un
Sudan federale». Poi, alla domanda sul tipo di regime che auspica,
aggiunge: «Il nostro programma è molto chiaro: un regime di
democrazia, laica, basato sul principio di cittadinanza e contrario,
di conseguenza, al fondamentalismo sudanese che contrasta con lo
spirito dell' Africa». Un programma è solo un programma, certo. Ma,
ascoltandolo, mi dico che in fin dei conti ho visto poche moschee
nel Darfur devastato. Mi rendo conto che non ho incrociato donne con
il velo. Penso di nuovo alla scuola bombardata di Deissa, dove mi
sono state mostrate classi di ragazze vicine a classi di ragazzi. E
mi viene in mente che forse un altro aspetto di tale guerra e un'
altra ragione per mobilitarsi stanno in questo: nel fatto che ci sia
un islam radicale contro un islam moderato; un regime che, alla fine
degli anni Novanta, dava asilo a Bin Laden contro popolazioni
musulmane refrattarie all' integralismo islamico e che ci sia, nel
cuore dell' Africa, nelle tenebre di quello che può diventare, se
non facciamo nulla, il primo genocidio del XXI secolo, un altro
teatro per l' unico scontro di civiltà che esiste davvero e che è
quello, lo sappiamo, dei due islam. (Traduzione di Daniela Maggioni)
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