“Fede,
ragione e università”, intervento del Papa all’Università di
Ratisbona
MONACO, mercoledì, 13 settembre 2006 (ZENIT.org).-
Martedì pomeriggio, Benedetto XVI si è recato all’Università di
Regensburg – nella quale è stato titolare della Cattedra di
dogmatica e storia del dogma dal 1969 al 1971 e dove ha ricoperto
anche l’incarico di Vicerettore – per l’incontro con i
Rappresentanti della Scienza.
Nell’Aula Magna dell’Università, introdotto dall’indirizzo di
omaggio del Rettore, il professor Alf Zimmer, il Papa ha rivolto al
mondo della scienza una lectio magistralis sul tema “Fede,
ragione e università. Ricordi e riflessioni”, che riportiamo di
seguito:
* * *
Eminenze, Magnificenze, Eccellenze,
Illustri
Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta
nell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei
pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo
un bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la
mia attività di insegnante accademico all'università di Bonn. Era –
nel 1959 – ancora il tempo della vecchia università dei professori
ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né
dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto diretto con gli
studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava
prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli
storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due
facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre
c'era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di
tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell'intera
università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas
– una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa
– l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le
specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra
di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione
con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune
responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto
diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera
anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse,
interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro
che necessariamente fa parte del "tutto" dell'universitas
scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede,
per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i
teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne
disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei
colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una
stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non
esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così
radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per
mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della
tradizione della fede cristiana: questo, nell'insieme
dell'università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte
edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il
dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i
quartieri d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano
colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi
presumibilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio
di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega
così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più
dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano. Il
dialogo si estende su tutto l'ambito delle strutture della fede
contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto
sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche sempre di
nuovo sulla relazione tra le – come si diceva – tre "Leggi" o tre
"ordini di vita": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Di
ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo
un argomento – piuttosto marginale nella struttura dell’intero
dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha
affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie
riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal
prof. Khoury, l'imperatore tocca il tema della jihād, della guerra
santa. Sicuramente l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256
si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È una delle
sure del periodo iniziale, dicono gli esperti, in cui Maometto
stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente,
l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate
successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza
soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra
coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo
sorprendentemente brusco che ci stupisce, si rivolge al suo
interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra
religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò che
Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose
cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo
della spada la fede che egli predicava". L'imperatore, dopo essersi
pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le
ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa
irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la
natura dell'anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -,
non agire secondo ragione, “σὺν λόγω”, è contrario alla natura di
Dio. La fede è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole
condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare
bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della
minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario
disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di
qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di
morte…".
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la
conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è
contrario alla natura di Dio. L'editore, Theodore Khoury, commenta:
per l'imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca,
quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece,
Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a
nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della
ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un'opera del noto
islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazn si
spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla
sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la
verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche
l'idolatria.
A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella
realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida
in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione
sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero
greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si
manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso
migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia.
Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo
versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il
prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος".
È questa proprio la stessa parola che usa l'imperatore: Dio agisce
“σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme
ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di
comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato
la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui
tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica
raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era
il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista.
L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un
semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano
chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la
sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr. At 16,6-10) –
questa visione può essere interpretata come una "condensazione"
della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e
l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo.
Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca
questo Dio dall'insieme delle divinità con molteplici nomi
affermando soltanto il suo "Io sono", il suo essere, è, nei
confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima
analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito
stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all'interno
dell'Antico Testamento, una nuova maturità durante l'esilio, dove il
Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come
il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice
formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa
nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo,
che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che
sarebbero soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr. Sal 115). Così,
nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani
ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo
stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica,
durante l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla
parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole
che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura
sapienziale.
Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento,
realizzata in Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice
(da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del
testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e
uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel
quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita
del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato
decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e
ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente
dall'intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura
del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire:
Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo,
si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa
sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il
cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns
Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi
successivi sviluppi, portò all'affermazione che noi di Dio
conosceremmo soltanto la voluntas ordinata.
Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale
Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò
che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che,
senz'altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero
portare fino all'immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato
neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio
vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra
ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero
specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi
eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni
effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre
attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno
Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera
analogia, in cui – come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 –
certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle
somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il
suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo
spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile,
ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come
logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in
nostro favore. Certo, l'amore, come dice Paolo, "sorpassa" la
conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice
pensiero (cfr. Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del Dio-Logos,
per cui il
latre…a – un culto
che culto cristiano è, come dice ancora Paolo –
logik»
concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr. Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto
tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del
pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto
di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della
storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato
questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante
la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia
infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa.
Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si
aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato
l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può
chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una
parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della
deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio
dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica.
Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma
della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia
nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente
distinte l'una dall'altra.
La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati
della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle
scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una
sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla
filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede
dall'esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da
essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma
come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico.
Il
sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della
fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La
metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da
cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente
se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il
pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo
programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con
ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica,
negandole l'accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda
onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante
eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come
nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era
fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di
partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei
filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia
prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo
argomento e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei
però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che
caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla
prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al
semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima
di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle
ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe
il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe
dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli
viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario.
Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in
armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi
apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede
nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso,
l'esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione,
sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'università: teologia,
per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di
strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la
critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di
conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel
sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in
modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però
ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali.
Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve,
su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il
successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la
struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità
intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua
efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire,
l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra
parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i
nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o
falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza decisiva. Il
peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più
dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così strettamente
positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra
questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di
matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò
che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo
criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come
la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di
avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le
nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come
tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema
ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo
davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è
doveroso mettere in questione.
Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener
presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di
conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica",
del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo
dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora
è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli
interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del
"verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non
possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta
dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati
nell'ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue
esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la
"coscienza" soggettiva diventa in definitiva l'unica istanza etica.
In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la loro forza
di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità
personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo
costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della
ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la
ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e
dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di
costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o dalla
psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo
ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della
deellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione
dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che
la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe
stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre
culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino
al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il
semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo
nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente
sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento,
infatti, è stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il
contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello
sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono
elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono
essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che,
appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della
ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede
stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a
grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non
include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare
indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni
dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è
valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le
grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi
nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della
scientificità, del resto, è – Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore
– volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un
atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito
cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione;
si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e
dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle
possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da
queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci
riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo
nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò
che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa
nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non
soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come
teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della
fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo
delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e
delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno.
Nel mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la
ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano
universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono
proprio in questa esclusione del divino dall'universalità della
ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione,
che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito
delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle
culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze
naturali, con l'intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come
ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme
con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente
accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza
tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura
come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico.
Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve
essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del
pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in
modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e
convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente
quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza;
rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del
nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di
Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte
opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben
comprensibile se uno, a motivo dell'irritazione per tante cose
sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni
discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe
la verità dell'essere e subirebbe un grande danno".
L'Occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione
contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così
potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi
all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è
questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione
sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non
agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario
alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua
immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo
grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo
nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi
stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell'università.
[Traduzione del testo originale in tedesco
distribuita dalla Santa Sede
© Copyright 2006 - Libreria Editrice Vaticana]
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