Perché l'Europa odia gli Stati Uniti? E soprattutto: si tratta
di un “normale” conflitto tra Grandi Potenze, questioni di interesse e
zone di influenza, o c'è qualcosa di più sottile e nascosto, di inconscio
agli stessi attori in campo, che ne vengono, quindi, agiti, più che agire
il conflitto razionalmente? So bene che a molti queste domande danno un
gran fastidio, e preferiscono coprirle con risposte rassicuranti. Tipo: in
realtà quest'odio appartiene solo ad un'esigua minoranza, la grande
maggioranza degli europei è invece amica e solidale con gli Stati Uniti, e
così via. Per non parlare poi del vecchio pregiudizio, che dava tanto
fastidio anche al solido Clausewitz, secondo il quale la politica sarebbe
tutta conscia, e tutta razionale. Nascondere la testa sotto la sabbia,
tuttavia, non serve a nulla, se non a perdere tempo ed a lasciare che la
situazione peggiori. Le prime tornate elettorali europee effettuate dopo
la guerra angloamericana contro l'Iraq, ad esempio, le amministrative in
Spagna ed Italia, hanno puntualmente confermato, tra l'altro, che ampi
settori di popolazione erano ostili a quella guerra, conclusa con la
vittoria degli Usa, e hanno profittato del voto per punire i partiti
filoamericani. Ancora più significativi sono però i segni che vengono
da Internet, uno strumento per certi versi molto più versatile rispetto ai
media tradizionali, e pronto a cogliere i cambiamenti in atto nel conscio
e nell'inconscio collettivo. Internet ha visto, dall'11 settembre in poi,
un netto riallineamento di posizioni in una galassia di centri di
aggregazione, anche piuttosto interessanti e seguiti, di destra e sinistra
non strettamente parlamentari. Il collante di questa nuova alleanza, che
manda continui segni di espansione e rafforzamento, è un acceso
antiamericanismo, che si salda con una posizione antisionista, con tratti
di vero e proprio antisemitismo.
Il delirio sul Grande
Persecutore del mondo
Lo stile di queste comunicazioni, spesso
travestite da informazioni, è quello della propaganda più accesa, nella
quale viene chiaramente indicato un Grande Persecutore, identificato in
una sorta di mostro bifronte, Stati Uniti/ Stato di Israele, colpevoli
sempre e comunque di ogni episodio riferito. La condanna nei confronti dei
gruppi terroristici, o degli Stati che li ospitano o appoggiano, manca
totalmente. Il fatto che manchi una fonte unitaria di questo fiume di
comunicazioni, proveniente invece dalle origini più svariate, toglie però
loro il carattere più direttamente riferibile alla propaganda politica,
lanciata contro il nemico da un avversario più o meno identificabile (così
erano ad esempio le comunicazioni su ognuno dei due blocchi avversari
durante la guerra fredda), per connotarle più precisamente come una
produzione paranoide di massa. A differenza della propaganda politica,
che ha sempre l'obiettivo razionale del diffondere e rafforzare il proprio
punto di vista, la produzione intellettuale di una posizione collettiva
paranoide ha come scopo autosufficiente l'espressione del proprio delirio,
indipendentemente da effetti pratici. Le manifestazioni e gli slogan delle
marce per la pace prima e durante la guerra contro Iraq, col loro
confondere Iraq con Vietnam, Hitler con Bush, attacco imperialistico e
difesa democratica, perdite umane e prospettive apocalittiche, sono state
un buon esempio, meritevole di uno studio più approfondito, di produzione
delirante, travestita (molto sommariamente del resto), da analisi
politica.
La dipendenza europea nello stile di vita
Questi elementi, già ci forniscono alcune indicazioni sulle
caratteristiche psicologiche dell'attuale antiamericanismo europeo.
Innanzi tutto ciò che è avversato, malgrado una verbigerazione
superficiale, non è lo “stile di vita” americano, che anzi le nuove
generazioni europee, capofila di questo movimento, proprio negli ultimi
anni hanno preso ad imitare sempre di più. Da riti tipicamente americani,
come l'”aperitivo mangiato” delle “happy hours”, al sempre più
imperversante ricorso ad anglicismi anche nelle comunicazioni più
riservate, ai film e alle musiche preferite, all'impennata nel ricorso a
separazioni e divorzi, gli europei si ingozzano sempre più di stile di
vita americano, anche nei suoi aspetti più banali, o malsani. Verso i
quali, a volte, l'attuale amministrazione americana sta prendendo forti
distanze, come sul tema dello sviluppo dei divorzi. L'Europa insomma, e le
sue giovani generazioni, rappresentano, come è del resto noto, la più
“americanizzata” delle culture del mondo. Ma se ne accettano con
straordinaria passività, e preoccupante mancanza di reazioni e produzioni
originali, lo stile di vita, allora cosa odiano gli europei nell'America?
Lo si è visto appunto nell'attuale crisi: gli europei non sopportano il
potere dell'America. E' di fronte alle sue manifestazioni che ogni
realismo e razionalità politica vengono liquidati, e che gli europei
cadono, nella loro maggioranza, in una posizione reattiva, che copre la
depressione di fondo, con forme di delirio
paranoico.
L'avversione alla potenza americana
L'11
settembre, anche da questo punto di vista, ha segnato un punto di svolta
decisivo. Fino allora gli Stati Uniti erano stati una superpotenza
mimetizzata da grande centro commerciale (come James Hillman aveva
definito l'Occidente). E' dopo quel drammatico attacco, e in quanto grande
potenza ferita, che gli Stati Uniti hanno deciso di reagire e non
nascondere più in alcun modo il loro potere politico e militare dietro la
massa farraginosa, ed in parte contraddittoria, dei propri interessi
economici. E' portando la guerra in Afghanistan, come prima risposta
all'attacco terroristico, che gli Usa svestirono la maschera di primo
commerciante del mondo, e indossarono (creando non pochi problemi al
processo di globalizzazione di cui i suoi nemici l'accusano) quella di
grande potenza politica, dotata di una propria visione del mondo. Una
visione naturalmente incardinata su quel principio della collective
security, portata da Wilson in Europa nel 1919, riaffermata da Roosvelt e
Truman nel 1945, e ripresentata, con gli aggiornamenti del caso, nelle
iniziative internazionali di George W. Bush contro il terrorismo. E'
appunto da allora che l'attuale fase della storia americana, 11 settembre
compreso, viene reinterpretata dall'antiamericanismo europeo in chiave
“golpista”, come una sequenza di episodi più o meno direttamente provocati
dall'attuale gruppo dirigente Usa per imporre al resto del mondo il
proprio potere imperiale. Ciò che gli europei non perdonano all'America di
George W. Bush è, insomma, di essere un potere che non nasconde la propria
forza, anzi la assume come una responsabilità da esercitare verso il resto
del mondo. Come una vocazione. Questa vocazione a garantire la maggior
sicurezza internazionale possibile, gli avversari europei la chiamano:
arroganza. Ed anche, non solo a sinistra, imperialismo. Occorre dunque
chiedersi come mai gli europei, che non hanno preso finora alcuna
iniziativa per ridurre il crescente livello di insicurezza nelle relazioni
internazionali, se la prendano così tanto con l'America quando essa lo fa,
esercitando il proprio potere sia di dissuasione, che d'attacco. La
frequenza poi del termine “imperialismo” nel discorso-delirio sulla
politica internazionale americana ci suggerisce, come il ricorrere delle
stesse parole nelle associazioni dei pazienti, che lì c'è un punto
dolente. Forse una ferita che l'inconscio copre e rivela al contempo, nel
suo caratteristico modo, quello della “proiezione”. Attribuendo cioè ad
altri qualcosa che ci riguarda profondamente, ma che non abbiamo ancora
ben sistemato a livello conscio. Cerchiamo di capire di che si tratta.
Gli Imperi perduti dagli europei, e quello rimproverato agli
americani
L'Europa ha perduto nello spazio di circa vent'anni,
dal 1947 ai primi anni 60, il controllo sulla gran parte del mondo, che
manteneva attraverso strumenti che risalivano agli imperi coloniali,
smantellati in fretta appunto in quel breve periodo. Julien Freund,
sociologo della storia di scuola “realista”, erede di Vilfredo Pareto e di
Raymond Aron, riteneva, all'inizio degli anni 80, che “tutto sommato gli
Europei vivono ancora sotto lo choc di quel che gli è capitato così
bruscamente; non hanno preso le misure delle conseguenze probabili
dell'avvenimento. Se ne accorgeranno senza dubbio quando i popoli allogeni
… faranno valere nuovi diritti, probabilmente in forma offensiva”.
L'analisi di Freund è particolarmente interessante perché riconosce ciò di
cui nessuno vuole parlare, e cioè che perdere praticamente in un colpo
solo il controllo di tre quarti del mondo produce, in chi subisce la
perdita, uno choc, un trauma. Destinata, come tutte le perdite gravi, a
manifestare i suoi effetti in seguito, quando il piano di realtà si
incaricherà di mostrare a chi ha subito la ferita gli effetti della
stessa, e della sua negazione. Gli effetti sono appunto quelli rivelatisi
a tutti con la risposta americana all'aggressione terroristica.
L'”abbandono del mondo“ da parte dell'Europa, che non solo aveva
precipitosamente liquidato i suoi imperi ma aveva anche abdicato alle più
elementari responsabilità internazionali, aveva precipitato una parte
rilevante del mondo in una situazione di disordine aggressivo che si
rivolgeva (oltre che, più subdolamente, contro l'Europa stessa) contro la
potenza che ne aveva preso il testimone nella leadership mondiale: gli
Stati Uniti d'America. Ed ora l'America cominciava a rispondere, arrivando
a mettere a rischio la stessa continuazione e sviluppo del processo di
globalizzazione, per affermare la propria (ed altrui) sicurezza, e la
propria visione del mondo, fondata sulla democrazia e la libertà.
L'Europa, che nei due secoli precedenti aveva conquistato il mondo certo
per commerciare e guadagnare, ma anche per portarvi la propria visione e i
propri principi politici, si trovava ora di fronte all'inquietante figura
psicologica che Otto Rank chiamò il “doppio”. Ecco dunque dinanzi
all'Europa un'altra grande potenza, anzi la grande potenza generata dalla
sua stessa cultura e che era subentrata al suo potere, che faceva ciò che
essa stessa aveva fatto nel periodo della sua massima espansione globale:
assicurare, anche con la forza, la massima sicurezza possibile al mondo.
Se l'Europa ne avesse ancora avuto la forza, psicologica e spirituale
prima che militare ed economica, avrebbe potuto associarsi con entusiasmo
all'impresa, che non faceva altro che continuare, aggiornandola ai tempi,
la sua propria storia, e la sua funzione di “custode” del mondo che essa
stessa aveva scoperto, e di cui aveva collegato le diverse componenti. Ma
la forza, ormai, era stata sostituita dalla malattia. Lo slancio passato,
aveva lasciato il posto ad un tono depressivo, in cui attecchivano
facilmente ogni sorta di fantasie persecutorie, di immaginazioni
paranoidi. Nelle quali chi si assume la responsabilità del proprio potere,
e il corrispondente coraggio (che ormai ti atterrisce), diventa il tuo
Grande Persecutore. Perché in realtà è il grande rivelatore della tua
falsa coscienza, e della tua, reale, viltà.
La decadenza,
malattia delle civiltà
Ciò che qui chiamiamo (mutuando
espressioni delle scienze psicologiche, ed applicandole alle
manifestazioni del conscio e dell'inconscio collettivo): tono depressivo,
posizione paranoide, produzione delirante, il pensiero politico realista
l'ha chiamato, in particolare con Vilfredo Pareto, decadenza. Essa
rappresenta la degenerazione di un tipo storico di civiltà, in cui si
alterano e decadono le sue caratteristiche condizioni politiche,
economiche, culturali e sociali. “L'Europa - osserva Julien Freund - è
entrata nella decadenza non solamente in rapporto all'impero mondiale che
controllava alla vigilia del suo fulmineo declino, ma soprattutto in
rapporto al suo dinamismo interno, all'audacia delle sue imprese, ed alla
vitalità dei suoi abitanti”. Ed ancora: “C'è un'affinità tra la politica
apprensiva, seguita nei livelli superiori, ed il diffondersi nella
popolazione di una mentalità che rifiuta di investire nell'avvenire,
spinta com'è a rivendicare a proposito e a sproposito, piuttosto che a
controllare le proprie forze per utilizzarle in modo consapevole”. E qui
Freund fa un'osservazione interessante, che riprenderemo più tardi: “E'
come se l'aggressività soggiacente avesse solo degli obiettivi negativi.”
Quanto poi all'Unione europea come via di uscita dalla decadenza osserva:
“Unirsi soltanto allo scopo di unirsi, e non in vista di obiettivi che
oltrepassano questa unione, significa che si fa per lo meno una politica
mediocre, che rischia di esaurirsi nella ricerca senza fine dell'unione.
Politicamente ci si unisce per ben altre ragioni: se mancano la volontà
d'espansione e l'audacia, l'unità non si realizzerà, oppure s'impigrirà
nella contemplazione di sé, salvo il caso in cui dovesse resistere ad un
nemico esterno”. Sono osservazioni che seppero pre/vedere gli sviluppi
successivi, e le riportiamo qui perché illustrano il terreno in cui prende
forma l'antiamericanismo europeo. Occorre tuttavia sottolineare che la
decadenza, come ogni fenomeno trasformativo, non è di per sé
esclusivamente negativa. Come osserva Pareto, non esclude una possibile
rinascita, a un altro stadio, in forme diverse. Non si può escludere, ad
esempio, che la partnership assicurata dall'Inghilterra all'attuale
politica americana, irrisa dall'antiamericanismo come segno di servaggio,
non appartenga invece ad una prospettiva di rinnovamento, che non a caso
la distacca dalle potenze europee più testardamente legate alla propria
discesa: Francia, Germania e Belgio. Anche l'azione del Presidente del
consiglio italiano in favore dell'allargamento dell'Unione ad est, ed il
suo impegno in Israele, potrebbe (se perseguita con determinazione)
trascinare Italia ed Europa fuori dalla morta gora di tatticismi e
prudenze estenuanti. In ogni caso, la messa a fuoco dell'idea di decadenza
è decisiva in questo discorso perché descrive perfettamente l'humus
psicologico e politico da cui si alimenta e prende forma l'attuale
psicopatologia dell'antiamericanismo. La sua centralità nel definire la
situazione europea era ben chiara alla lucida analisi di Raymond Aron che
nel 1977, raccogliendo le sue riflessioni sull'Europa, rimase a lungo
incerto tra intitolarle Difesa dell'Europa Liberale, oppure: Europa,
guardati dal perdere la libertà. Alla fine, tuttavia, scelse: Difesa
dell'Europa decadente , in cui difende la dignità di un'Europa debole, ma
che rispetta le libertà fondamentali, rispetto a un impero forte come
l'Urss, che invece le calpesta. La sfida del terzo millennio
Tuttavia all'Europa decadente di quegli anni non si era ancora posta
la sfida che le porrà invece l'America di George W. Bush all'inizio del
terzo millennio. Quella cioè di affiancare gli Stati Uniti nella guida di
un mondo in preda a pulsioni distruttive di grande portata, nella quale
fenomeni diversi come il “revival etnico”, i residui rancori ideologici
delle “grandi narrazioni” mortifere che avevano dominato il secolo scorso,
l'incapacità da parte di molti soggetti politici ex coloniali di gestire
le ricchezze se non in chiave di aggressione distruttiva, o di satrapia
dissipatrice, rischiavano di mettere in moto processi dissolutori delle
civiltà e delle culture, tanto più pericolosi quanto più in possesso delle
tecnologie avanzate che lo sviluppo occidentale aveva diffuso (spesso per
lucro) nel mondo intero. Per raccogliere questa sfida però, occorreva una
coscienza collettiva europea ancora vitale. Ed invece, come osservava
benissimo Freund già vent'anni prima, “è spezzato lo slancio interiore,
come testimoniano il rifiuto del rischio, e l'indolenza dinanzi alle
iniziative .” Nello “slancio spezzato” tuttavia, si manifestano le
conseguenze di un altro fenomeno di prima importanza, psicologica e
politica. Vale a dire la mancata elaborazione del lutto derivante dalla
fine di quello che dalla Rinascenza in poi si era manifestato come il
destino dell'Europa: la sua vocazione a scoprire e, in modi diversi,
influenzare i destini del mondo. Quest'assenza di elaborazione provocava,
come ogni lutto non elaborato, un abbassamento del livello di coscienza
collettiva tanto più pericoloso per l'Europa, in quanto le impediva di
fornire una propria interpretazione alla crisi del processo di
decolonizzazione da lei stessa realizzata, ed agli esiti nefasti che il
modo in cui era stato condotto stava assicurando al resto del mondo.
In questa situazione, la politica americana che di questa crisi si fa
invece carico, sia pur oscillando tra categorie fumose come lo “scontro di
civiltà” di Huntington, e la più realistica “guerra preventiva”
dell'amministrazione Bush, affronta ciò che l'Europa rifiuta
disperatamente di vedere: i risultati devastanti della sua fuga
precipitosa da ogni responsabilità nella politica mondiale.
Gli
Stati Uniti come OMBRA dell'imperialismo europeo
Nel fare
questo, l'America diventa fatalmente l'Ombra (l'aspetto rifiutato) dalla
coscienza europea. In questo gioco di proiezioni, essa assume allora (agli
occhi dei suoi “nemici” europei) le sembianze (demonizzate) dello stesso
imperialismo europeo, che l'Europa aveva creduto di potersi togliere di
dosso come un vecchio vestito, senza pensare a ciò che questo significava
per i popoli e le culture che venivano in questo modo dismessi,
abbandonati alle proprie pulsioni, e a quelle dei loro più o meno feroci
vicini e avversari. L'Ombra europea proiettata sugli Usa, dà forma anche a
tutta l'aggressività dell'Europa, che il vecchio continente nega nella sua
coscienza collettiva, ricacciandola quindi nell'inconscio, come spesso
accade nelle forme depressive. Mentre l'America esprime quell'aggressività
come sfida, proposta, anche avventura (come l'Europa aveva fatto per lungo
tempo). In questo torbido ribollire di immagini, fantasmi, ed odi
antichi e nuovi, che l'Ombra (carica di tutti i materiali dell'inconscio e
del passato) sempre porta con sé, l'America torna definitivamente ad
essere ciò che per gran parte dell'Europa era già stata, a due riprese nel
secolo scorso: il Grande Nemico, il Grande Persecutore.
Il
rancore delle grandi narrazioni sconfitte
Un' Ombra così
cospicua, come quella che l'America sta finendo con l'apparire a molti
Europei, non avrebbe, infatti, potuto costituirsi se in essa non
confluissero gli odi e i rancori lasciati dalle sconfitte di due guerre
mondiali, ma soprattutto quello delle sconfitte procurate dall'America
alle due grandi narrazioni di violenza e di morte che avevano
preannunciato la decadenza europea: quella nazista, e quella comunista. A
loro volta sintesi politiche di quel fenomeno tutto europeo che fu, ed è,
il pensiero nichilista, col suo corollario della morte di Dio. L'America
che dice: In God we trust, l'America che ha spazzato i deliri neopagani
della décadence nazista, come quelli dell'onnipotenza burocratica e feroce
del socialismo reale, prende su di sé l'odio di tutti quelli (e sono
molti, anche fra coloro che all'epoca non erano ancora nati), che non
hanno perdonato. Perché la posizione paranoide (come del resto la
decadenza) ha anche un tratto “familiare” (proprio nel senso
psichiatrico): la si può, insomma, ereditare. Se il quadro qui
trattato fosse giusto, o anche soltanto somigliante, la via d'uscita non
sarà facile. Solo una cultura politica realmente svincolata dalle grandi
narrazioni sconfitte potrebbe suscitare l'interesse a partecipare
all'avventura vitale del fratello americano, senza bollarla come l'azione
delinquenziale del Grande Persecutore. D'altra parte, solo una visione
religiosa svincolata dal nichilismo del novecento europeo può legittimare
una visione vitale, che ogni tratto di decadenza bollerà invece come
“vitalistica” e criminale. La visione di Dio, ed il gusto per la vita,
anche in questa vicenda, come in ogni altra, procedono di concerto: quando
l'una è perduta, anche l'altra viene a mancare. E si ricade allora nella
patologia denunciata da Jung, nella quale gli Dei, fuggiti, si
ripresentano sotto forma di malattie. Eventualmente sub specie di idoli
“neo pagani”, cari ai falsi no global di destra e sinistra, i cui tratti
kitch soddisfano il gusto e la morale indeboliti della decadenza. |